Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 03/04/2010, 3 aprile 2010
LE COLPE DI BANCHE E MANAGER
Il nuovo amministratore delegato di Borsa Italiana, Raffaele Jerusalmi, un manager peraltro di valore, non farà parte del consiglio di amministrazione del London Stock Exchange come, invece, era concesso al suo precedessore, Massimo Capuano. Sembra una notizia trascurabile, ma non lo è. Questo cambio della guardia tra tecnici fa capire, anche a chi tre anni fa era duro d’orecchi, quanto la fusione tra la Borsa di Milano e quella di Londra sia stata in realtà la dispersione, per certi aspetti umiliante, di un patrimonio di Milano e del Paese a tutto vantaggio degli spregiudicati signori della City.
In un tempo che sembra privo di memoria, ricapitolare i fatti finisce con l’essere il più concreto dei commenti. La storia inizia nel 1998, quando, in base alla legge Draghi, il mercato di piazza degli Affari, fino ad allora gestito dalla società mutualistica degli agenti di cambio, viene affidato a Borsa Italiana Spa. Le azioni di questa società erano state cedute dal Tesoro alle banche e ad altre società quotate per la miseria di 25 milioni di euro. Dieci anni dopo, in occasione dell’operazione con gli inglesi, Borsa Italiana è valutata 1,63 miliardi di euro. Considerando i dividendi e l’emissione azionaria fatta per l’acquisizione di Montetitoli, un’altra piccola azienda del settore, Borsa Italiana rende 62 volte il capitale investito dai soci. Una prestazione straordinaria che deriva da due cause principali: a) l’espansione delle transazioni finanziarie favorita dalla globalizzazione e dall’economia del debito; b) le privatizzazioni che, con i collocamenti di Telecom Italia, Enel, Eni, banche, Autostrade, moltiplicano il numero delle compravendite e dei soggetti attivi nell’investimento azionario. Borsa Italiana, insomma, non inventa nulla, non è una Google o una Microsoft e nemmeno una Geox, ma s’inserisce in una tendenza mondiale e si giova di una decisione del governo che le crea il mercato.
Quando nel 2007 arriva l’offerta londinese, la società e i suoi azionisti (Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi soprattutto) avrebbe anche altre opportunità d’inserimento: il circuito Euronext-Nyse, articolato tra Parigi e New York, e la Deutsche Bourse di Francoforte. Ma potrebbe anche stare da sola: nel momento in cui imercati finanziari sono fatti di computer interconnessi in tempo reale e la circolazione dei capitali non incontra più barriere giuridiche, il gigantismo della singola piazza sembra corrispondere alle ambizioni napoleoniche dei manager e all’ansia di speculazione su titoli di gran moda come quelli delle società di gestione delle Borse più che a una necessità operativa e, ancor meno, alle urgenze di finanziamento delle imprese italiane in carne e ossa, allora come oggi poco interessate alla Borsa.
A Londra, d’altra parte, hanno i loro problemi. Come fa notare l’ufficio studi di Mediobanca, il London Stock Exchange Group ha un patrimonio netto negativo per oltre 300 milioni di sterline. Vedi pagina 12
Un dividendo straordinario e altri prelievi dalle casse sociali a favore degli azionisti e del management hanno prosciugato il capitale. La società risulta assai indebitata con le banche, specialmente con la Royal Bank of Scotland (che di lì a poco dovrà essere nazionalizzata per evitarne il fallimento) e con la Barclays (che invece reggerà la crisi).
Come direbbero gli inglesi, la situazione è borderline; come direbbero gli italiani, che hanno un altro codice, la situazione sarebbe già oltre i limiti e richiederebbe un sollecito aumento di capitale. Ma Clara Furse, il top manager del London Stock Exchange, non fa una piega. Per ripagare il debito bancario, questa signora dai tratti thatcheriani emette obbligazioni con rating Baa2; in altre parole, rifila ai mercati obbligazioni spazzatura che, come spiegano i suoi stessi bilanci, non avrebbe mai accettato sui propri libri.
Per il portavoce della Borsa inglese, quel debito serve a tenere a distanza un azionista australiano sgradito, a ottimizzare la struttura del capitale e a rafforzare la politica della società. In realtà, la fusione con Milano consente a Londra di far emergere un avviamento abbastanza grande da rimettere in sesto lo stato patrimoniale. E qui comincia la parte triste della storia.
Ai soci di Borsa Italiana va il 29 per cento del nuovo raggruppamento borsistico. Se riunissero le loro partecipazioni in una holding, come consiglia Piero Gnudi, questa sarebbe il maggior azionista singolo e potrebbe esercitare una grande influenza, se non proprio issare il tricolore sulle rive del Tamigi. Ma la Clara di ferro si mette di traverso per preservare, dice, la natura di public company di London Stock Exchange. E’ un’evidente forzatura. Nel capitale della Borsa di Londra figurano già grandi azionisti: il Nasdaq, che è il mercato newyorkese dei titoli tecnologici, sgradito come gli australiani e in uscita, il Qatar e il Dubai con quote tra il 15 e il 20%, ma proni ai gerenti. evidente che Furse vuole soltanto salvare il potere suo e dell’establishment londinese.
Tra gli argomenti per ridurre gli italiani all’impotenza, benché se ne utilizzi il pronto soccorso, spicca la presenza delle fondazioni nelle banche italiane. Troppo politici, insomma, questi italians. Il fatto che negli emirati arabi tutto dipenda dal sovrano, invece, va bene. un dettaglio? Sì, lo è, ma spiega meglio di tanti discorsi quale sia nell’ anno di grazia 2007 l’arroganza della City, che due anni dopo implorerà l’aiuto del Tesoro di Sua Maestà, e quale la sudditanza culturale delle banche italiane che nemmeno si offendono davanti a tali considerazioni, salvo poi trovare nelle fondazioni l’ancora di salvezza durante la crisi. Evidentemente, l’ansia delle banche di realizzare un bel guadagno e l’illusione di un manager, Massimo Capuano, di poter ereditare un giorno la poltrona di Clara Furse hanno consigliato di accettare il diktat di un soggetto che si era mangiato il capitale.
Al dunque, però, il posto di Clara Furse è andato a un francese, Xavier Rolet, che non ne sa più di Capuano; piazza degli Affari si è ridotta a essere una mera filiale di Londra; la grande fusione dei mercati è già messa in mora dai circuiti alternativi, che tolgono affari alle Borse tradizionali qualunque sia la loro dimensione e le inducono a ridimensionare l’impegno costoso alla trasparenza e all’informazione per privilegiare l’impegno commerciale, la conquista del cliente impresa e la diffusione di ogni genere di nuovo titolo.
Il che, sia detto di passata, spiega la scelta del successore dell’ancor troppo istituzionale Capuano, e la sua esclusione dalla stanza dei bottoni.
Massimo Mucchetti