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 2010  aprile 02 Venerdì calendario

IL DUCE COSTRINSE PIO XI A TACERE SULL’ABISSINIA

Ai primi di dicembre del 1935 Benito Mussolini era inquieto. L’avanzata in Abissinia, dopo i successi iniziali, segnava il passo. Anzi il nemico aveva avviato una controffensiva che stava creando difficoltà alle truppe italiane. Meglio sembravano andare le cose sul fronte interno, visto che la massa della popolazione appoggiava con entusiasmo la guerra d’Etiopia e lo stesso clero guardava con estremo favore all’impresa coloniale. Ma rimaneva un’incognita circa l’atteggiamento della Santa Sede e in particolare di Papa Achille Ratti, Pio XI.
Il 18 dicembre era prevista la giornata dell’oro alla patria. E la gerarchia ecclesiastica italiana si stava prodigando per la riuscita dell’iniziativa. I vescovi donavano anelli e croci, esortavano i fedeli a sacrificare le fedi nuziali al sogno imperiale. Ma due giorni prima del rito fascista, il 16 dicembre, era in programma a Roma un concistoro per la nomina di alcuni cardinali. E c’era il rischio che Pio XI cogliesse l’occasione per invocare la pace in Africa orientale, visto che già in agosto il Pontefice si era pronunciato contro la guerra (l’incidente era stato tamponato a fatica con resoconti giornalistici «addomesticati») e più di recente «L’Osservatore Romano» aveva richiamato con favore la prospettiva di una mediazione franco-britannica per chiudere il conflitto iniziato in ottobre.
Quel momento cruciale per la crisi abissina è ora ricostruito nei dettagli da Lucia Ceci, storica dell’Università di Roma Tor Vergata, grazie all’ampia documentazione inedita da lei reperita nell’Archivio segreto vaticano. Mussolini fece forti pressioni perché il Pontefice tacesse sulla guerra. E Pio XI si piegò, per non compromettere i buoni rapporti instaurati con il fascismo in seguito ai Patti lateranensi del 1929. Infatti Il Papa non deve parlare (Laterza, pp. 264, ࿬ 20) è il titolo del saggio di Lucia Ceci su Chiesa e guerra d’Etiopia appena uscito in libreria con prefazione di Angelo Del Boca.
La giornata decisiva fu il 13 dicembre 1935, allorché il conte Bonifacio Pignatti, ambasciatore presso la Santa Sede, si recò a conferire con il segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli (il futuro Papa Pio XII). Il diplomatico italiano chiarì che Mussolini non era interessato alle «proposte irrisorie» avanzate da Londra e Parigi. E quando Pacelli gli fece presente che il Papa avrebbe voluto «annunziare qualche speranza di pace» nella sua allocuzione all’imminente concistoro, Pignatti replicò seccamente che un invito di Pio XI a una tregua «sarebbe stato considerato dal governo fascista e dal Paese un atto inamichevole». Il segretario di Stato dovette rimanere impressionato perché, ancor prima di consultare il Pontefice, rispose subito: «Allora non se ne farà nulla».
La conferma venne l’indomani, 14 dicembre, in un colloquio tra Mussolini e padre Pietro Tacchi Venturi, un gesuita che fungeva da «messo pontificio» presso il dittatore. L’inviato di Pio XI garantì che il Papa «non avrebbe nel prossimo concistoro neppur nominato il conflitto italo-etiopico, contenendosi di fronte ad esso tamquam non esset ». Cioè come se la guerra non fosse esistita. Infatti Ratti non parlò dell’Abissinia il 16 dicembre e neanche a Natale. Così il clero continuò a sostenere lo sforzo bellico, convinto che la Santa Sede approvasse tacitamente il suo comportamento.
Invece in Vaticano si masticava amaro, come mostrano le note riservate stese da monsignor Domenico Tardini, stretto collaboratore di Pio XI, molto severe non solo verso il fascismo, ma anche verso la Chiesa italiana: «Il clero’ scriveva’ deve essere calmo, disciplinato, obbediente ai richiami della Patria; è chiaro. Ma invece questa volta è tumultuoso, esaltato, guerrafondaio. Almeno si salvassero i vescovi. Niente affatto. Più verbosi, più eccitati, più... squilibrati di tutti». E anche al di là dei giudizi di Tardini era evidente, nota Lucia Ceci, il timore della Santa Sede di apparire, agli occhi del mondo, allineata sulla posizione dell’Italia durante una guerra di aggressione.
Molte altre sono le acquisizioni originali di questa ricerca, la prima dedicata complessivamente non solo all’aspetto diplomatico, ma più in generale al comportamento dei cattolici durante il conflitto. Alcune sono già state anticipate dall’autrice in precedenti contributi: per esempio sulla mancata lettera di Pio XI a Mussolini alla vigilia della guerra (vedi «Corriere», 23 ottobre 2007), o sull’acquiescenza vaticana verso la politica razzista del fascismo in Africa orientale («Corriere», 5 novembre 2008). Ulteriori elementi nuovi riguardano il tentativo della Santa Sede di coinvolgere gli Stati Uniti in un’iniziativa di pace e il sondaggio compiuto a guerra finita dal monarca etiope spodestato, il negus Hailé Selassié, per aprire un negoziato con l’Italia tramite il Vaticano, fra la fine del 1936 e i primi mesi del 1937. L’imperatore abissino era disposto ad abdicare, pur di ottenere alcune garanzie finanziarie e un ruolo per il suo primogenito nel futuro dell’Etiopia, sia pure sotto sovranità italiana. Ma non se ne fece nulla: Mussolini era sicuro di sé e del suo impero. Ben presto però la guerra mondiale gli avrebbe riservato sgradevoli sorprese.
Antonio Carioti