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 2010  aprile 02 Venerdì calendario

DIARIO DI UN ADDIO

«Non credo che il suicidio sia una morte come un’altra. Ciononostante credo che vada annoverato tra i modi di morire che l’essere umano può scegliere pur nei limiti stretti di una condizione molto dolorosa». Così Roberta Tatafiore descriveva la sua scelta di darsi la morte. Era il 26 febbraio dell’anno scorso. Si è uccisa l’8 aprile, a 66 anni, con un misto di psicofarmaci e alcol, in una stanza dell’hotel Novecento all’Esquilino, dopo una vita passata a studiare e a lottare per i diritti delle donne e tre mesi di autoreclusione nel suo appartamento, per prepararsi alla scelta estrema, mettersi «in fuga dai legami», separarsi dal vivere.
morta dopo sei giorni di coma, proprio la mattina in cui cinque suoi amici ricevevano la raccomandata con il testo del suo diario di questi mesi di sofferenza e di ricerca. Che mercoledì prossimo’ nel primo anniversario della sua scomparsa – sarà in libreria: «La parola fine, diario di un suicidio» (Rizzoli, 160 pagine, 17.00 euro). Non è solo una cronaca della disperazione, è anche una meditazione sulla morte, una riflessione sulla vita e uno studio con un soggetto singolare: se stessa e il proprio dolore. Un testamento.
Con sincerità la Tatafiore indaga sul suo proposito («c’è risentimento e rabbia nel suicidio» scrive l’11 gennaio), che in realtà l’ha accompagnata lungo tutta la vita, dalla morte drammatica del padre ucciso da un operaio uscito di senno. Una vita che nella prefazione il suo amico Daniele Scalise definisce «ricca e confusa, frastornata e dolorosa, coraggiosa fino alla temerarietà», certamente anticonformista, come i suoi studi che l’hanno portata dal femminismo, alle indagini sul mondo del sesso a pagamento e poi negli ultimi anni a ripensare all’eredità delle battaglie femministe e a scegliere il confronto con la destra laica, dalla collaborazione con il Secolo d’Italia al lavoro presso l’associazione per l’assistenza dei malati di cancro di Francesco De Lorenzo.
In questi tre mesi in cui costruisce la propria morte, per tutti loro, come anche per gli amici, confeziona una serie di bugie, una vita parallela che le permette di isolarsi nella sua casa vicino a Piazza Vittorio, di chiudersi in quella zona grigia in cui «mi fa male vivere ma anche morire», perdersi nelle letture di Marguerite Yourcenar, di Sylvia Plath. Le consente di studiare e indagare le storie di donne suicide, interrogarsi anche sul dopo («Non escludo a priori l’esistenza di un luogo/non luogo che precede la vita, l’accompagna e le va oltre»), avviarsi verso la fine, ripensando agli amori e ai dolori della vita.
Rinuncia alle «relazioni», Roberta Tatafiore, agli amici e alla vita, ma non al tran tran: cucina con cura i suoi pasti, con una certa disciplina «niente alcol ma una canna forte e una birra corona prima di cena», si distrae con Dallas e Scherzi a Parte, non lesina sul parrucchiere né sull’estetista, congeda la colf, saluta la gatta e si commuove nell’ultima visita alla banca.
Si confida soltanto con un’amica di vecchia data, che la accompagna fino alla fine, silenziosa e comprensiva: «Quando uno sente la necessità di morire, ciò che più desidera è di avere un angelo al suo fianco... una presenza capace di fare pulizia nella confusione emotiva e di instaurare l’ordine necessario perché la morte volontaria potesse realizzarsi in piena coscienza e nelle migliori condizioni possibili», scrive a fine gennaio. Negli ultimi giorni cerca in modo disperato anche la morfina, dopo aver deciso di rinunciare alla Dignitas di Zurigo per paura che la rimandino indietro, se non dovesse superare l’esame dello psichiatra previsto dalla legislazione svizzera: «Pensare di affrontare un viaggio senza esito mi angoscia». Racconta anche i suoi tentennamenti. il 16 febbraio, subito dopo il caso Englaro che non può lasciarla indifferente: «Un po’ di buona volontà e da domani riprendere le cure, un po’ di speranza e farmi aiutare a rimettere a posto la vite-vita». Ma è l’ultimo cedimento alla vita prima di «dichiarare fallimento».
L’8 aprile esce di casa con un libro di Leopardi, passa dal parrucchiere e prende possesso della stanza al Novecento. Ma in quell’istante è «già da un’altra parte».
Gianna Fregonara