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 2010  aprile 08 Giovedì calendario

CARITA’ NON GONFIARE LE CIFRE


Con i numeri qualche volta si esagera. E spesso si capisce anche perché: i governi amplificano i risultati della lotta all’evasione fiscale, per autoelogiarsi, le forze dell’ordine gonfiano il valore della merce sequestrata, per dimostrare la propria efficienza. Ci sono casi, però, in cui le ragioni dell’estremismo numerico sono meno evidenti.

Le grandi istituzioni planetarie che si occupano dei mali del mondo, per esempio, spesso trovano più naturale amplificarli che ridimensionarli. È difficile sentire la Chiesa dire che i poveri stanno diminuendo; o sentire la Fao (Food and agriculture organization of the United Nations), che si occupa di fame nel mondo, dire che le persone che soffrono per la mancanza di cibo sono in diminuzione; o l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), che ha il compito di tutelare la salute degli abitanti del pianeta, minimizzare i rischi di una pandemia (ricordate l’allarme rosso sull’influenza suina?); o l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), che studia il cambiamento climatico, rassicurarci sul riscaldamento globale.

Perché le grandi istituzioni benefiche, a differenza dei governi, preferiscono lanciare allarmi piuttosto che rivendicare risultati? Perché la Caritas, nella conferenza stampa dell’11 febbraio 2010, preferisce denunciare l’esistenza di 8 milioni di poveri piuttosto che mostrare quanti poveri ha fatto uscire dalla miseria?

Una risposta molto semplice è che i governi vivono di consenso elettorale, mentre le grandi istituzioni benefiche vivono di sussidi, privati e pubblici. Se vuoi massimizzare i voti, devi convincere gli elettori che stai risolvendo con successo un problema: non puoi raccontare che il problema si sta aggravando, perché sarebbe riconoscere una sconfitta. Se invece vuoi massimizzare i sussidi, devi convincere i cittadini (e i governi) che il problema c’è, che è enorme, e che sei tu il cavaliere senza macchia e senza paura che lo vuole combattere: amplificare le cifre è innanzitutto una strategia di fund raising, di raccolta fondi.

Una seconda risposta è che spesso chi si sente paladino di una buona causa più o meno consapevolmente pensa che ingigantirne le dimensioni aiuti a sensibilizzare l’opinione pubblica, suscitando indignazione, rivolta morale, protesta, partecipazione e lotta. Succede alle grandi istituzioni benefiche, e qualche volta anche ai personaggi pubblici politicamente impegnati.

E tuttavia c’è un limite alla manipolazione delle cifre. Se ho due stime incerte, una che dice 100 e l’altra 120, posso anche capire che, in nome della causa, si opti per 120, la stima più grande. Capisco molto meno che, sempre in nome della causa, si stravolgano completamente gli ordini di grandezza, dando una rappresentazione della realtà radicalmente distorta.

Se in Italia i poveri sono meno di 3 milioni, perché devo dire che sono 8, ossia quasi il triplo? Eppure, è quello che dice la Caritas quando denuncia il problema della povertà usando i dati della povertà relativa (guadagnare meno della metà del reddito mediano) anziché quelli della povertà vera e propria (guadagnare meno del paniere di sopravvivenza).

Questo modo di maneggiare le cifre, che sottomette la verità alle ragioni di una causa etica o politica, a me pare molto rischioso, per almeno tre ragioni. Intanto perché il ”900 è pieno di cause nobilissime (o ritenute tali) che, proprio per il loro disprezzo per la verità, sono finite in tragedia. Poi perché, proprio se si vuole cambiare il mondo, è bene disporre di una rappresentazione veritiera di come stanno le cose (conoscere per decidere, diceva Luigi Einaudi). E infine perché non riesco a togliermi un dubbio: non è che a forza di rappresentare i mali della società come invincibili la rivolta morale si trasforma in rassegnazione?

Un dubbio, questo, che non nasce solo da una riflessione di buonsenso, ma poggia su un secolo di ricerche sulla partecipazione politica. Ricerche che mostrano che la partecipazione e la lotta si fondano sulla sensazione di poter cambiare le cose (uno stato d’animo che gli psicologi sociali chiamano «senso di efficacia»), mentre i sentimenti di impotenza, la credenza che l’avversario sia invincibile producono soprattutto qualunquismo, amarezza, ripiegamento nella sfera privata.