Eugenio Bruno, Il Sole-24 Ore 1/4/2010, 1 aprile 2010
DAI COSTI STANDARD RISPARMI DI SPESA
La corsa ai costi standard è ufficialmente partita. Ieri si è tenuta la prima riunione del gruppo di lavoro interno alla commissione tecnica paritetica per il federalismo ma non si è andati oltre uno scambio di vedute preliminari. Che il tema sia "sensibile" lo dimostrano però le simulazioni che si sono succedutesi negli ultimi mesi sul possibile impatto della loro introduzione. Come quello realizzato, su input del Pd, da Giampao-lo Arachi, Vittorio Malpelli e Alberto Zanardi, che quantifica tra 2,5 e 5,2 miliardi i risparmi attesi nel solo ambito sanitario.
Il compito che l’esecutivo si è dato non è semplice. Specie se si vuole rispettare la tabella di marcia dettata dal ministro della Semplificazione Roberto Calderoli: incassare tra maggio e giugno il sì preliminare del Consiglio dei ministri sui decreti attuativi con la definizione dei costi standard e l’attribuzione di maggiore autonomia impositiva agli enti territoriali. Stabilire cosa sarà «standard» e cosa no servirà a decidere il "giusto" livello delle uscite per assicurare i livelli essenziali delle prestazioni (i cosiddetti lep che saranno decisi per legge, ndr) e fissare l’asticella sotto la quale interverrà la perequazione nazionale ma sopra la quale saranno i singoli amministratori locali a dover intervenire. Per arrivarci andrà innanzitutto definito cos’è il costo standard che dovrà sostituire da qui al 2016 la vecchia spesa storica. Un modello preconfenzionato da applicare al futuro assetto federale non esiste; il sistema più adatto all’Italia andrà cucito sulle peculiarità dello Stivale. Lo testimonia il fatto che il dibattito interno alla commissione tecnica ieri si è arenato su un aspetto decisamente preliminare: stabilire a monte le risorse che verranno trasferite dal centro alla periferia – ricetta preferita dall’Economia ”oppure deciderlo a valle sulla base dei costi e fabbisogni standard effettivamente individuati.
Alla fine è prevalsa la seconda tesi. Anche se ogni ulteriore approfondimento è stato rinviato a dopo il 10 aprile quando partiranno i tavoli per studiarne l’applicazione ai singoli comparti (sanità, istruzione o assistenza) o ai diversi livelli di governo (regioni, province o comuni). Solo allora si deciderà se è meglio individuare i singoli beni o servizi su cui calcolare il costo oppure le funzioni da finanziare. Dopodiché si potrà ragionare in termine di input necessari a produrli (personale necessario, livello dei consumi) e di output da considerare (popolazione servita, età anagrafica, conformazione geografica). Moltiplicando il costo così determinato per le quantità utili ad assicurare il rispetto dei lep si avrà il valore «standard».
Il passo successivo sarà decidere quanti e quali territori usare come benchmark per fissare l’asticella di cui sopra: uno solo come auspicato a suo tempo dal-la Lombardia, tre come prevedeva la versione originaria del disegno di legge sul federalismo oppure una media tra tutti e 20? Escludendo la prima e l’ultima ipotesi perché troppo o troppo poco punitive per le regioni in ritardo ci si potrebbe assestare sulle quattro più efficienti: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana, con presentano il vantaggio ulteriore di essere gestite per metà dal centro-destra e per metà dal centro-sinistra.
In ogni caso la posta in palio è elevata come confermano le simulazioni realizzate in questi mesi. Sui possibili risparmi attesi dai costi standard la riformabandiera della Lega si gioca gran parte delle sue chance di successo. Secondo lo studio di Arachi, Mapelli e Zanardi – uno dei più validi a sentire gli esperti del tema ”, che Il Sole 24 ore ha anticipato il 19 luglio scorso e che gli stessi autori hanno implementato in autunno, già dall’applicazione di costi medi alla sola sanità deriverebbero 2,7 miliardi di risparmi. Che sfiorebbero i 5,2 (al netto delle risorse trasferite) introducendo quantità standard ai ricoveri e ai farmaci.
Sull’impatto dei costi standard in sanità si è soffermato di recente anche il centro studi Cerm (Competitività regolazione mercati). Non per quantificare le risorse recuperabili bensì per invocare regole diverse nei rapporti finanziari tra stato e regioni e tra queste ultime e le proprie asl. I primi, scrivono lo stesso Pammolli e Nicola C. Salerno, dovrebbero basarsi sull’attribuzione a ogni territorio di un quota del fondo sanitario nazionale parametrata sui fabbisogni aggregati secondo le peculiarità economiche e demografiche. Laddove i benchmark entrerebbero in gioco solo nei rapporti tra le regioni e le aziende ospedaliere di competenza. Fermo restando, aggiungono gli autori, la rimozione del gap infrastrutturale esistente in campo sanitario tra Nord e Sud del paese.