Geronimo, Libero/31/3/2010, 31 marzo 2010
IL PREMIO DI MAGGIORANZA CHE INCHIODA LA NOSTRA POLITICA
Una cosa è certa. L’onda lunga del centro-destra da tre anni continua ancora nonostante attacchi da ogni parte e questa volta ha sostanzialmente omologato i governi regionali a quello nazionale con l’esclusione della ”zona franca” delle regioni appenniniche e dell’incidente pugliese. Sulla vittoria del centro-destra, dunque, niente da dire.
Sbaglieremmo, però, a festeggiare senza fare tre considerazioni. La prima. La crescita continua dell’astensionismo deve preoccupare tutti i protagonisti della politica perché testimonia un distacco crescente tra istituzioni e società. Qualche sociologo dirà che questo è modernismo. Sciocchezze. Le ultime elezioni regionali della prima Repubblica (anno 1990) la partecipazione era tra il 78% (Molise) e il 92% (Lombardia ed Emilia Romagna). Oggi siamo al 63%. Se in 20 anni quasi il 25% degli italiani non va più a votare è un brutto segnale e qualcuno dovrà pure darci una spiegazione (per quanto ci riguarda ne parleremo quanto prima).
La seconda considerazione è la stupida e permanente ”querelle” sul bipolarismo. Sino a quando ci sarà sul piano nazionale il premio di maggioranza con l’indicazione del premier e su quello regionale l’elezione diretta del presidente con annesso premio di maggioranza, si formeranno sempre due schieramenti o, per dirlo con chiarezza, due poli mentre altri correranno per la bandiera. Questo sistema esiste solo in Italia. E infatti quello che nessuno dice è che il premio di maggioranza ha frantumato sempre più il sistema politico italiano.
FRANTUMAZIONE
In queste ultime elezioni in ogni regione concorrevano15o20listecon3-4presidenti mentre nei comuni c’era la sarabanda di 7-8 candidati sindaci. E il dato parla da solo. Questa frantumazione partitica che rappresenta un ”unicum” nella storia repubblicana è figlia del sistema elettorale con il premio di maggioranza ma anche, e questa è la terza considerazione, dall’assenza di un processo politico che avrebbe dovuto rafforzare la tendenza riaggregatrice delle forze politiche e non favorirne l’implosione. In altri Paesi, vi sono due grandi partiti che insieme fanno il 65-70% dei votanti e
il numero dei partiti è molto più contenuto (vedi Germania, Spagna, Francia, Austria, ecc.). Queste elezioni regionali ci hanno consegnato invece un Pdl al 26,9% eunPdal25,8%conuna crescita da un lato della Lega che raggiunge il 12% mentre nelle tre regioni del Nord va a valanga e dall’altro di Di Pietro e dei nuovi arrivati, i grillini. E questa non è una buona cosa perché ognuno per sottolineare la propria diversità continuerà a urlare ingiurie e sciocchezze.
PARTITO VERO
Venendo più sul terreno politico tutti dicono che la crescita della Lega non è una sorpresa. E noi con loro. Ma pochi dicono il perché. La Lega da sempre ha capito che il partito nuovo è quello antico fatto di militanti, di luoghi di riunioni e di amministratori che fanno la gavetta nei comuni per poi crescere e passare in Parlamento o nei consigli regionali. A sinistra invece promuovono veltronianamente segretarie o ricercatrici inesperte mentre a destra di tutto e di più.
Ma c’è un’altra caratteristica che la Lega ha e gli altri non hanno. Ha un’identità che per quanto grossolana la si possa giudicare è una identità che dà un senso di appartenenza e di coinvolgimento in un progetto. A destra funziona solo il carisma di Berlusconi mentre a sinistra hanno smarrito ogni più piccola identità salvo, poi, a ritrovarla a Bruxelles quando vanno nel partito socialista europeo. Organizzazione e identità sono i due pilastri di un partito che vuole durare oltre il suo fondatore e la Lega lo è mentre i due maggiori partiti arrancano e di Pietro è solo una cometa. Detto questo la stabilità politica che queste elezioni comunque rafforzano devono consentire di avviare una stagione di riforme cominciando a capire quale tipo di democrazia vogliamo, se quella presidenziale o quella parlamentare.
Vista la crisi dei partiti e l’eliminazione sostanziale del ruolo del parlamento, meglio un presidenzialismo all’americana nel quale vi sono due sovrani democratici (Presidente e Congresso) costretti a dialogare piuttosto che continuare in questo pasticcio istituzionale in cui non siamo né carne, né pesce. Abbiamo tre anni davanti. Non sciupiamoli.
Geronimo, Libero/31/3/2010