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 2010  marzo 31 Mercoledì calendario

UNICREDIT, LE FONDAZIONI ALZANO IL PREZZO DEL SOSTEGNO A PROFUMO


Quando, a sorpresa, il 17 marzo scorso, si è saputo che la Fondazione Cassa di Torino (Crt) aveva speso 300 milioni per partecipare all’acquisto del pacchetto di titoli Generali (il 2,26 per cento) messo in vendita dall’Unicredit di Alessandro Profumo, il segretario generale dell’ente torinese ha sentito il bisogno di annunciare che l’operazione "porterà benefici al territorio". Ma le parole dettate ai giornali dal brillante professore piemontese Angelo Miglietta, gran collezionista di poltrone e incarichi, sono suonate ai più come un auspicio, un augurio per il futuro prossimo, o forse il tentativo, si vedrà quanto fondato, di giustificare un affare che risponde soprattutto alle logiche dell’alta finanza. Perché nell’alto dei cieli del capitalismo nazionale è in corso una battaglia per stabilire chi comanderà sull’asse Mediobanca-Generali. E a Torino c’è un politico-banchiere come Fabrizio Palenzona, sostenuto dalla Fondazione Crt, che vuol dire la sua sull’argomento, preferibilmente da una posizione di forza. Così, giusto in tempo per l’assemblea delle Generali in calendario tra meno di un mese, ecco che scende in campo l’ente torinese, si associa con un pool di investitori veneti (Amenduni, Palladio, VenetoBanca) già ben piazzati a Trieste, compra i titoli del gruppo assicurativo e per finanziare l’acquisto non può fare a meno di indebitarsi per almeno 150 milioni.

Il quadretto va completato con una pennellata finale, spiegando che l’operazione consente alla fondazione piemontese azionista importante di Unicredit di finanziare lo stesso Unicredit. La banca guidata da Profumo (con Palenzona vicepresidente) si era impegnata con l’Antitrust a vendere quella partecipazione in Generali su cui, tra l’altro, non poteva esercitare il diritto di voto in assemblea. A dire la loro alla prossima riunione dei soci a Trieste saranno invece Palenzona e i suoi alleati veneti che, forti di un altro pacchetto dell’1,7 per cento, sono diventati di fatto il terzo azionista del colosso delle polizze alle spalle di Mediobanca e della Banca d’Italia.

Tutto regolare, tutto a norma di legge, per carità. Solo che in casi come questi si corre sempre sul crinale ripido del conflitto d’interessi. E così riesce difficile pensare che il venditore Profumo, spettatore più che interessato nella partita Generali, non si sia quantomeno consultato con i compratori, cioè i suoi azionisti torinesi, a proposito del prossima scadenza assembleare a Trieste. L’appuntamento è quanto mai importante perché in quella sede si dovrà decidere il successore dell’ottuagenario Antoine Bernheim sulla poltrona di presidente. E la scelta potrebbe alla fine cadere su Cesare Geronzi, ora al vertice di Mediobanca.

Insomma, il territorio può attendere, per usare le parole del piemontese Miglietta, che da parte sua siede già da un anno (solo un caso?) nel consiglio di amministrazione di Banca Generali, l’istituto di credito che fa capo all’omonimo gruppo assicurativo. Magari, in futuro, lo sbarco a Trieste porterà dei benefici al Piemonte e a Torino. E la fondazione Crt incasserà ricchi dividendi dalle sue azioni Generali. Nel frattempo, però, quello che davvero conta sono gli equilibri di potere nella galassia della finanza. E le vicende di queste ultime settimane sono un esempio concreto del corto circuito tra strategie aziendali e interessi particolari dei grandi azionisti. Al centro di tutto, ancora una volta, c’è l’Unicredit di Profumo e i suoi soci di riferimento cioè le fondazioni bancarie, che, come noto, sono organismi particolari. Con i vertici nominati in base a logiche politiche, espressione di potentati locali che non devono rispondere ad azionisti né grandi né piccoli.

Il fatto è che ai primi di marzo l’amministratore delegato di Unicredit si è visto stoppare dai soci maggiori il suo piano di riorganizzazione del gruppo. "Parliamone", diceva in breve il messaggio recapitato al numero uno. Anzi, riparliamone, visto che il riassetto è stato delineato nelle sue linee essenziali quasi un anno fa e le perplessità iniziali sembravano rientrate dopo mesi di incontri e consultazioni. In estrema sintesi, il piano prevede la fusione nella capogruppo Unicredit delle cinque società operative italiane su cui oggi si articola l’attività della banca. Le tre che governano la rete degli sportelli, poi quella che si occupa del corporate, cioè i servizi alle aziende, e infine l’ultima dedicata al private banking. ’Insieme per i clienti’ è lo slogan coniato per celebrare il nuovo assetto del gruppo. Nel senso che il ribaltone servirebbe ad avvicinare la struttura alle esigenze di chi bussa allo sportello in cerca di servizi finanziari, prestiti o consulenza. Un modo di affrontare al meglio i nuovi scenari di mercato dopo la grande crisi della finanza. A prima vista l’operazione, che arriverà a coinvolgere decine di migliaia di dipendenti (con possibili nuovi tagli di personale, prevedono i sindacati), appare un mezzo passo indietro rispetto alla riorganizzazione varata solo un paio di anni fa, dopo l’acquisto di Capitalia. Fu in quell’occasione che le attività appena rilevate dall’istituto romano vennero separate tra loro e conferite in nuovi veicoli societari in parte creati ad hoc. Adesso si cambia di nuovo: cancellate le società, tutto finisce in pancia alla capogruppo, a sua volta organizzata in divisioni in base alla tipologia di clienti. Tutto chiaro, se non fosse che le fondazioni azioniste hanno imposto uno stop al progetto, che era già pronto per essere sottoposto al consiglio di amministrazione convocato per martedì 16 marzo.

Come si spiega l’affondo dei grandi soci? Molti osservatori hanno scomodato le ragioni della politica. In pratica il siluro a Profumo servirebbe a condizionare le sue scelte sull’asse Mediobanca-Generali. Va detto che oltre ai torinesi di Crt, anche un altro influente azionista di Unicredit come la Fondazione Cariverona guidata da Paolo Biasi vanta interessi rilevanti (una quota del 3,1 per cento) nella banca che fu di Enrico Cuccia e di conseguenza anche nel gruppo assicurativo triestino. In sintesi, la ritrovata convergenza d’interessi tra Palenzona e Biasi, due personaggi non sempre in sintonia tra loro nel passato recente, serve a restringere gli spazi di manovra per un amministratore delegato negli ultimi anni fin troppo autonomo.

Questa lettura dei fatti non manca di una sua logica. Ma, a ben guardare, lo sgambetto a Profumo forse risponde anche a interessi ben più concreti. Da una parte il dividendo poco più che simbolico deliberato nei giorni scorsi (3 centesimi per azione) non ha certo aumentato la popolarità dell’amministratore delegato tra fondazioni come quella di Torino che nei mesi scorsi hanno messo più volte mano al portafoglio (oltre 800 milioni versati) per sostenere gli aumenti di capitale varati dalla banca. E poi c’è anche una questione di potere. E di poltrone. Non per niente l’inedita alleanza tra Torino e Verona sembra aver trovato l’entusiastico appoggio anche delle altre fondazioni (Bologna, Sicilia, Treviso, Reggio Emilia) presenti nel capitale della banca. Per scoprirne il motivo basta dare un’occhiata all’assetto, per così dire, geografico del gruppo Unicredit. Negli anni scorsi infatti, con l’obiettivo di soddisfare le pretese degli enti azionisti, le cinque società controllate sono state assegnate a cinque sedi diverse disseminate da Nord a Sud sul territorio nazionale. E così le tre banche retail, quelle a cui fa capo la rete degli sportelli, hanno il loro quartier generale a Bologna, Roma e Palermo, il corporate fa capo a Verona e il private banking a Torino.

Insomma, ce n’è per tutti, in un delicato equilibrio che tiene conto delle ragioni del campanile. Ragioni che all’atto pratico si traducono in una pletorica struttura di comando. Ogni società, infatti, vanta un proprio consiglio di amministrazione di 15 membri (in Sicilia sono 9), in parte scelti su indicazione delle singole fondazioni. In totale fanno 69 poltrone. Se poi si considera che lo stesso board della holding Unicredit, anche questo costruito per dare voce a tutti i soci più influenti, conta su altri 24 amministratori, il vertice del gruppo finisce per assomigliare a una sorta di parlamentino. Un parlamentino che in termini di compensi ai soli amministratori (esclusi i manager operativi) costa svariati milioni di euro all’anno. Con la nuova struttura proposta nei mesi scorsi, le cinque banche sul territorio verrebbero ridimensionate a semplici divisioni. Destino segnato anche per i posti da amministratore: cancellati.

Logico allora che le fondazioni chiedano qualcosa per accettare di ingoiare questa pillola amara. Magari un direttore generale che prenda il comando delle attività italiane e diventi l’interfaccia degli enti azionisti. Come dire che Profumo dovrebbe sacrificare una parte del suo potere. Non sarà facile per un banchiere che si era guadagnato sul campo il soprannome di ’Arrogance’.