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 2010  marzo 31 Mercoledì calendario

COSA NOSTRA HA PERSO LA CUPOLA


Gli equilibri mafiosi in Sicilia i boss sono abituati a calibrarli con il piombo. E quando in Cosa nostra cambiano gli assetti di potere bisogna ’interrogare’ i morti. L’ultimo delitto a Corleone - il primo di quest’anno - ha abbattuto un imprenditore, che gli inquirenti ritengono finanziasse i vecchi padrini detenuti, in particolare Totò Riina, il capo dei capi. L’omicidio di Nicolò Romeo non è di mano corleonese, perché i sicari sembrano essere stati inviati da altre zone del palermitano. Per gli inquirenti potrebbe essere uno dei segnali che fa prospettare una frattura tra il fronte delle carceri, dove sono ormai seppelliti dalle condanne definitive a vita gli anziani padrini, e i giovani mafiosi in libertà. Ma chi comanda oggi in Cosa nostra? La domanda se la pongono pure gli investigatori che vedono ancora in Totò Riina il capo, anche se non ha più un esercito perché falcidiato dagli arresti degli ultimi tempi, dalle inchieste giudiziarie che hanno stracciato la potenza di fuoco dei vecchi corleonesi.

Le indagini mettono in evidenza la parcellizzazione dell’organizzazione, in cui ogni ’famiglia’ palermitana pensa a sé non condividendo alcuna strategia unitaria. Dall’arresto di Bernardo Provenzano, avvenuto quattro anni fa, Cosa nostra sembra aver superato la fase strategica della ’sommersione’ - in cui erano vietati gli omicidi - e come sostiene la Procura nazionale antimafia guidata da Piero Grasso "sta vivendo quella della transizione, non soltanto sotto il profilo della scelta di una nuova autorevole leadership, ma anche sotto il profilo della ricerca di nuovi schemi organizzativi e di nuove strategie operative".

I mafiosi non rinunciano ad elaborare modelli unitari, o a progetti che assicurano la sopravvivenza dell’organizzazione. E ancora oggi, nonostante i numerosi interventi delle forze dell’ordine che hanno portato in carcere centinaia di associati, Cosa nostra dimostra la capacità di ristrutturarsi, mantenendo intatte la sua vitalità e l’estrema pericolosità, "perché ci si illuda" come sostiene la Procura nazionale "che lo Stato, approfittando della sua momentanea debolezza, possa più agevolmente e definitivamente sconfiggerla".

Cosa nostra non è solo palermitana: attualmente i più pericolosi latitanti che ne costituiscono parte del vertice in libertà, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Falsone, fanno riferimento alle province di Trapani e Agrigento. Attraverso i due latitanti l’organizzazione continua a imporre strategie generali, mantenendo il controllo sulle attività economiche, sociali e politiche. A loro disposizione c’è una vasta rete di fiancheggiatori che permette di portare avanti le estorsioni, le infiltrazioni nel settore degli appalti pubblici, in quello della grande distribuzione alimentare, dei mercati ortofrutticoli e in quello delle sale da gioco. Ma soprattutto nella politica.

Cosa nostra, da tempo, non è più un gruppo di criminali che uccide e persegue un programma di delitti. L’obiettivo principale è il profitto ottenuto dalle attività lecite svolte con mezzi illeciti. Ma per operare alla luce del sole, come il mercato richiede, i boss non possono utilizzare quello che è stato definito il nucleo operativo occulto e cioè la tipica struttura mafiosa, ma devono avvalersi di una vera organizzazione economica che operi nei rapporti di affari con iniziative formalmente legali. quello che sta mettendo in atto Matteo Messina Denaro.

L’ossatura di questa rete imprenditoriale non può che essere composta da professionisti del ramo, comunque versati in economia e finanza, senza con questo volere del tutto escludere la presenza del mafioso che, abbandonata la coppola ed indossato l’abito da manager, segua personalmente l’evoluzione degli affari. Una rivoluzione culturale: in Sicilia traspare che la scelta di moltiplicare i capitali illeciti attraverso i mercati obbliga le cosche a seguire le regole dell’impresa, ponendosi, ad esempio, anche il problema dei costi, dei ricavi e dell’investimento dei profitti. E spesso accade di scoprire che la mafia per coprire proprie attività, si fa antimafia di facciata. Accade a Palermo come a Catania.

L’organizzazione criminale è sostanzialmente obbligata a seguire i modelli dell’impresa lecita, servendosi di collaboratori esterni o addirittura di altre imprese cui affidare lo svolgimento di parte della sua attività. Sono stati così scoperti consulenti finanziari che curano l’investimento dei profitti illeciti. E non solo. Cosa nostra gode di favoreggiatori che sono tecnici, professionisti, soprattutto commercialisti, medici, imprenditori, esponenti politici e della burocrazia a tutti i livelli. Si tratta di quella che viene definita ’borghesia mafiosa’.

Palermo adesso scopre, dopo aver avuto fino a qualche anno fa un capo mandamento primario di un ospedale che ordinava omicidi e gestiva gli equilibri politici della città, che il capo di una ’famiglia’ è un architetto. Il medico Giuseppe Guttadauro è già stato arrestato e condannato, mentre Giuseppe Liga, 60 anni, architetto, ritenuto dagli investigatori l’erede di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, è finito in carcere pochi giorni fa. Lo scenario è quello di una nuova Cosa nostra con al comando personaggi che un tempo erano consigliori economici dei boss. Adesso li hanno sostituiti alla guida delle famiglie e nelle attività di controllo del territorio. Liga, infatti, nel 1998, secondo quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia, era "consigliere finanziario dei Lo Piccolo. Ora ha preso il controllo del clan e gestisce anche il racket delle estorsioni".

Ed attorno al clan guidato dall’architetto si sono rafforzate le altre famiglie, in particolare quelle del palermitano come Bagheria, Villabate e Belmonte Mezzagno. Ognuna di loro ha un vertice che impone strategie. Ai loro ordini ci sarebbero, secondo l’ultimo ’censimento’ fatto dagli inquirenti, un centinaio di uomini d’onore pronti e preparati ad uccidere o tornare alle azioni eclatanti dei primi anni Novanta. E i clan di Palermo, che storicamente dovrebbero indicare il capo di questa nuova Cosa nostra, non hanno ancora individuato il boss carismatico che prenderà il posto di Totò Riina. Così ognuno pensa per sé.

I pentiti raccontano dei continui rapporti fra la ’famiglia catanese’ e Cosa nostra palermitana. Entrambe hanno mantenuto contatti che sono sfociati spesso in affari comuni per gestire insieme appalti ed estorsioni. Ma quello che a Palermo è difficile nascondere, per via di una seppur minima rivolta sociale - rispetto alla realtà - che va dall’associazione Addiopizzo a Libero Futuro legate alla Federazione antiracket di Tano Grasso fino a Confindustria che caccia chi si piega alle richieste dei boss, a Catania riesce a passare sotto silenzio.

All’ombra dell’Etna gli imprenditori sembrano non sconvolgersi se fanno affari con imprese legate alle cosche. E accade pure che al vertice delle associazioni di categoria siedano addirittura familiari di mafiosi. il caso di Angelo Ercolano, cugino del boss Aldo Ercolano, eletto presidente della Federazione Autotrasporti italiana (Fai) della Sicilia Orientale, sotto le bandiere della Confcommercio Catania. Un corto circuito incredibile: familiari di mafiosi alla guida di associazioni che dovrebbero difendere gli iscritti dalle pressioni dei clan. E non si tratta di nomi di secondo piano: gli Ercolano sono sempre stati i ras degli autotrasporti a Catania e l’attuale presidente della Fai è titolare della Sud Trasporti che ha circa seicento mezzi.

A Palermo, dall’altra parte dell’isola, il codice etico delle associazioni vieta di affidare cariche a persone come Angelo Ercolano, il cui cognome fa tremare ancora oggi i polsi a molti commercianti e imprenditori etnei. Ma come ha fatto emergere ’Report’ in una inchiesta di Sigfrido Ranucci, nella nuova autostrada Siracusa-Catania avrebbe lavorato anche l’azienda Copp, riconducibile a Vincenzo Ercolano, figlio di Giuseppe Ercolano condannato per associazione mafiosa e fratello di Aldo Ercolano, accusato come mandante dell’omicidio del giornalista Giuseppe Fava. stata tra i fornitori della ditta costruttrice, la Pizzarotti di Parma, tramite la Unical Calcestruzzi. Ranucci intervista Vincenzo Ercolano, il quale parla come se fosse l’amministratore della Copp, ma nelle visure della ditta non compare nemmeno come socio.

Le cosche catanesi dettano ancora legge agli imprenditori, e solo in pochi hanno reagito alle imposizioni dei boss. Finora associazioni di categoria e industriali non hanno colto l’occasione di avviare una più forte collaborazione con lo Stato, nonostante l’impegno delle istituzioni che hanno dimostrato di tutelare le aziende che scelgono la legalità. Perché è sul fronte dell’imprenditoria che si combatte la sfida per fermare la nuova mafia prima che completi la sua metamorfosi.