Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  marzo 31 Mercoledì calendario

PAGLIARO MEDIOBANCA VECCHIO STILE

Da ieri Renato Pagliaro è il nuovo presidente di Mediobanca. E dovrà rispondere – con i fatti, visto che coltiva la discrezione verbale come una virtù – a una domanda: non sarà che è l’uomo giusto, al posto giusto ma arrivato nel momento sbagliato? PROFESSIONAL. Pagliaro, milanese, si laurea alla Bocconi, corso di Economia aziendale, nel 1981 ed entra subito in Mediobanca. Poi scala tutte le posizioni fino ad arrivare a quella più prestigiosa, dopo aver occupato negli ultimi due anni la più importante carica operativa assieme a quella di Alberto Nagel: uno direttore generale, l’altro amministratore delegato. Entrambi sono tra i manager più pagati d’Italia del 2009 con uno stipendio di 2,5 milioni di euro all’anno. Nella vulgata della stampa economica sono gemelli diversi, quasi privi di individualità specifica. Non è così. Nagel è più giovane (45 anni contro 53), e ha una visione meno integralista della cultura aziendale che permea la banca d’affari milanese. ”Nagel va in palestra. Ce lo vede lei Cuccia a fare pesi?”, chiede un po’ indignato un conoscitore di Mediobanca. Di Pagliaro si sa che preferisce il tennis – considerato più adatto a un banchiere perché implica duello ed eleganza ”ma ha sacrificato anche quello alla dedizione al lavoro. Tra i due è Pagliaro quello più fedele al dogma della riservatezza coltivata da Enrico Cuccia e dal suo maestro diretto, Vincenzo Maranghi (di cui ricorda un’altra esortazione, l’ultima che l’ex presidente lasciò in eredità prima di andarsene nel 2003: ”Preservate i valori morali, non solo quelli professionali”). E in questo non potrebbe essere più diverso dal presidente uscente e futuro presidente delle Assicurazioni Generali, Cesare Geronzi, che invece, oltre a una delega alle relazioni esterne, ha sempre coltivato rapporti con giornalisti e giornali come parte integrante del suo mestiere di banchiere-politico. Per spiegare cosa distingue il presidente uscente di Mediobanca da quello entrante, il professor Giandomenico Piluso – docente alla Bocconi e autore di ”Mediobanca, tra regole e m e rc a t o ” (Egea 2005) – ricorre a due categorie inglesi. Pagliaro è un ”profes - sional”, Geronzi un ”po - wer broker”. Tradotto: Pagliaro è un dirigente che pensa solo all’azienda e ragiona per categorie manageriali, con una carriera tutta proiettata all’interno in cui la progressione si basa su merito e affinità alla cultura dominante (e molti sostengono che questa sia la variabile decisiva in Mediobanca). Geronzi, invece, è un mediatore che costruisce il proprio potere determinando i confini di quello altrui. Geronzi è diventato il simbolo del ”capitalismo di relazione italiano” (e delle sue patologie, sostengono molti), mentre per Pagliaro le relazioni sono state sempre un mezzo più che un fi n e . CHI RESTA E CHI PARTE.Il suo nome finisce sui giornali per la prima volta nel 1994, dopo quasi dieci anni dentro la banca, quando accompagna Maurizio Romiti (figlio dell’ex direttore generale di Fiat Cesare) in procura a Ravenna dove si indaga sulla famiglia Ferruzzi, la Montedison e i loro rapporti con Mediobanca. Pagliaro torna sulla stampa tre anni dopo, nel 1997, quando prende il posto proprio di Romiti junior che passa al gruppo Marzotto- Hpi. Il distacco da Mediobanca è, come sempre, un po’ trau - matico ma in quegli anni se ne vanno in tanti. Nel 1998 lascia anche Roberto Notarbartolo, responsabile dei collocamenti, e un anno prima si era consumato il dramma della rottura tra Maranghi e Gerardo Braggiotti, passato a Lazard, che neppure Cuccia era riuscito a evitare. Un dissidio maturato intorno a visioni opposte delle strategie di Mediobanca: Braggiotti vuole l’acquisi - zione di Lazard, caldeggia una fusione tra Comit e Credit, azioniste di Mediobanca, ma Cuccia e Maranghi preferiscono preservare il peculiare equilibrio per cui la controllata influenza la controllante (e questo richiede che le due banche restino separate). Di quella generazione di manager, tutti bocconiani, fa parte anche Matteo Arpe, che lascerà piazzetta Cuccia nel 2000 per Lehman Brothers. Pagliaro e Nagel restano. I loro estimatori dicono che lo fanno per maggiore sintonia con il modo di lavorare di Mediobanca, altri sostengono che la spiegazione è che hanno minore versatilità (di Arpe) o meno rapporti spendibili (di Braggiotti, Romiti e Notarbartolo). La costanza, però, viene premiata. E Pagliaro riesce a integrarsi anche nella difficile fase di transizione seguita all’uscita di Maranghi. POLITICA E AFFARI. Pro - prio al meno politicizzato degli uomini del vertice, finiscono in mano i dossier dal più alto contenuto politico. Pagliaro inizia ad occuparsi delle partecipazioni strategiche, siede nei consigli di amministrazione di Rcs (che controlla il Corriere della Sera), di Pirelli, di Telecom. E in occasione del passaggio della quota di controllo della compagnia telefonica da Marco Tronchetti Provera a Telco (la holding di cui sono soci Telefònica, Mediobanca, Intesa Sanpaolo, le Generali e per due anni i Benetton) si scontra per la prima volta con Cesare Geronzi, appena arrivato alla presidenza. Pagliaro sostiene la riconferma di Guido Rossi alla presidenza, insieme con Nagel sponsorizza Gabriele Burgio ma alla fine deve arrendersi all’asse tra Geronzi e Giovanni Bazoli (Intesa Sanpaolo) che impone Gabriele Galateri e Franco Bernabè. Nomi che, temeva Pagliaro, avrebbero permesso alla politica di avere una maggiore influenza su Telecom (c’è poi stata una pressione ai fianchi più che un condizionamento diretto dei dirigenti). L’EQUILIBRIO. Adesso che Pagliaro ha raggiunto la posizione di vertice e Geronzi trasloca alle Generali, il rapporto di forza tra i due si misurerà proprio da come verranno gestite le partecipazioni. Mediobanca e Generali giocano insieme su tutti i tavoli sensibili, da Telecom a Rcs. Una delle spiegazioni del perché Geronzi lasci la controllante (Mediobanca) per la controllata (Generali) è che ci sia l’accordo informale che le partite politiche saranno gestite da Trieste e non più da Milano. E in questa fase Geronzi potrebbe in effetti risultare tra i due quello con il profilo più adatto. ”Fino al 2007 sembrava che Mediobanca fosse avviata a diventare una banca d’affari come le altre, ci si aspettava una riorganizzazione delle partecipazioni strategiche e un’e ventuale apertura internazionale. Poi è arrivata la crisi e il sistema finanziario italiano è diventato molto più introverso”, spiega il professor Piluso. Conseguenza: i manager cosmopoliti e di formazione americana come Alessandro Profumo di Unicredit declinano mentre i ”power broker” alla Geronzi, che hanno poca familiarità con l’inglese ma moltissima con gli equilibri dei salotti romani, riemergono dall’oblio in cui la globalizzazione finanziaria sembrava averli relegati. Pagliaro, che appartiene alla prima categoria, dovrà dimostrare di non essere arrivato al vertice troppo tardi, di non essere fuori sincrono con lo spirito dell’epo - ca. Magari al prezzo di lasciare che sia Geronzi, da Trieste, a gestire le partite più politiche come il destino di Telecom di cui ora, dopo le regionali, si inizierà a discutere seriamente. Come ha scritto ieri sul Financial Times Paul Betts, ”Geronzi e il suo entourage potrebbero rifiutare qualsiasi altra etichetta ma non il fatto di rappresentare la via romana agli affari. Anzi, probabilmente ne farebbero un punto d’onore”.