RICCARDO LATTANZI, La Stampa 31/3/2010, pagina 34, 31 marzo 2010
PERCHE’ I CERVELLI NON TORNANO? (2
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Riusciranno a fare tornare i cervelli?
Il decreto ministeriale del 23 settembre ha stabilito i criteri di ripartizione del fondo di finanziamento ordinario delle università e riserva 2 milioni e mezzo di euro per le «chiamate dirette nei ruoli dei docenti di studiosi ed esperti stranieri o italiani impegnati all’estero«. Questa, dunque, è la cifra che l’Italia investe per far tornare i cervelli, a fronte di una perdita di capitale umano che ogni anno ammonta, considerando il numero dei laureati che espatriano e quanto è costata la loro formazione, a qualche miliardo di euro.
Questo tipo di chiamate dirette sono state istituite nel 2005 per stabilizzare i ricercatori tornati con il famoso programma per il «rientro dei cervelli», che altrimenti, dopo i 4 anni di contratto previsti dalla legge, sarebbero rimasti in mezzo alla strada. Purtroppo non sono servite, visto che ad oggi solo poche decine sono diventati professori nelle università italiane. Gli altri sono ripartiti. E’ evidente allora che l’iniziativa del Miur, seppur lodevole, da sola non basta a fronteggiare il problema del «brain drain», particolarmente grave in Italia, dove il rapporto tra ricercatori in ingresso e in uscita è di 1 a 10.
Siamo tutti d’accordo che la soluzione sia trasformare il fenomeno in «brain circulation», ma per farlo bisogna prima capire perché le università italiane non riescono ad attrarre ricercatori dall’estero. Mettiamoci nei panni di un giovane straniero che ha appena conseguito il dottorato e cerca un posto da ricercatore: inizierà consultando gli annunci di lavoro nelle principali università e continuerà con le altre, ma difficilmente si spingerà oltre la 100ª posizione in classifica, dove appaiono i primi atenei italiani. Se anche volesse, la burocrazia dei bandi di concorso usciti in queste settimane lo scoraggerebbero (sempre che li capisca, visto che il testo è solo in lingua italiana!). Le cose non vanno meglio se il giovane è italiano. L’aver studiato all’estero diventa per lui un handicap, perché i dipartimenti proteggono i loro precari, che da anni attendono il concorso da ricercatore. Questo, tra l’altro, è uno dei motivi per cui le chiamate dirette non hanno aiutato a stabilizzare i cervelli rientrati: le università non li vogliono.
Si tratta di una prerogativa del nostro sistema, che grazie alla mancanza di disincentivi può permettersi di alzare barriere e chiudersi in se stesso. Vanno, invece, in senso opposto le migliori università del mondo. In un editoriale di qualche mese fa, il presidente del Mit, Susan Hockfield, lanciava un appello per cambiare la politica sull’immigrazione, che oggi scoraggia molti ricercatori stranieri a rimanere negli Stati Uniti dopo il master o il PhD, sostenendo che «sono gli scienziati immigrati che creano posti di lavoro e vincono i Nobel». Nel 1985 quello dell’economia andò ad un italiano, Franco Modigliani, all’epoca professore proprio al Mit. In quegli anni, però, era raro rimanere all’estero dopo gli studi. Curiosando nel database degli «alumni» e «alumnae» del Mit, ho scoperto che fino ai primi Anni 80 praticamente tutti gli italiani tornavano indietro. Evidentemente le competenze e l’esperienza acquisite consentivano di far carriera velocemente, sia in università, sia in azienda.
Significativo è l’esempio del dipartimento di economia. Negli Anni 70 vi studiarono Mario Baldassarri (presidente della Commissione Finanze del Senato), Mario Draghi (governatore della Banca d’Italia), Francesco Giavazzi (professore ed editorialista) e Tommaso Padoa Schioppa (ex ministro dell’Economia). Se guardiamo invece agli «alumni» e «alumnae» degli ultimi anni, ci accorgiamo che sono rimasti quasi tutti negli Stati Uniti. Non sono abbastanza bravi? Sono troppo bravi? Domande irrilevanti. La verità è che alle aziende italiane non interessa il titolo di PhD e oggi le università italiane non offrono nessuna opportunità a chi volesse rientrare. La mancanza di trasparenza nel reclutamento e l’incertezza del percorso di carriera accademica non invogliano neanche a provarci.
Il problema è serio. Se non tornano a casa neanche gli italiani, come si può pensare di attrarre talenti stranieri? Anche per questo non sono del tutto contrario alle leggi per il rientro dei cervelli, perché l’influsso di persone con un’importante esperienza internazionale favorisce lo scambio di idee ed è un primo passo verso la «brain circulation». Tra le proposte più recenti, c’è un disegno di legge bipartisan, «Controesodo», che prevede la concessione di un credito di imposta ai connazionali che tornano a lavorare in Italia dopo un periodo di formazione all’estero. Ottima idea per chi vuol fare l’imprenditore, ma del tutto inutile per chi aspira ad un posto di ricercatore e come prima preoccupazione ha quella di trovarlo.
Per far circolare i cervelli non è però necessario trasferirli in modo definitivo. «Issnaf», la fondazione degli scienziati ed intellettuali italiani in Nord America, ad esempio ha tra i suoi scopi quello di creare borse di studio bidirezionali: per ogni ricercatore portato negli Usa, se ne manda uno in Italia. Questo approccio favorisce l’internazionalizzare delle università e, forse, nel lungo periodo potrebbe migliorare le cose, ma per arrivare in breve tempo a competere sul mercato globale della conoscenza c’è bisogno di nuove regole interne.
Il disegno di legge della riforma universitaria va nella direzione giusta, normalizzando le fasi iniziali della carriera universitaria e stabilendo che almeno un terzo dei professori vadano reclutati tra candidati che non abbiano prestato servizio nell’ateneo banditore nei precedenti tre anni. Se il ddl supererà indenne l’esame del Parlamento, misure come l’obbligo di avere il 40% di membri esterni nel CdA e la distribuzione delle risorse in base al merito serviranno a responsabilizzare gli atenei, anche nel reclutamento dei docenti, e la chiamata diretta diventerà uno strumento prezioso per accaparrarsi i professori migliori. Naturalmente l’efficacia di un sistema competitivo basato su incentivi e disincentivi dipende dal valore di questi e, quindi, dopo la riforma si dovranno aumentare i finanziamenti all’università per non rischiare che il costo della valutazione superi l’ammontare dei premi dati ai migliori.
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Mario Baldassarri e Francesco Giavazzi sono due ex studenti del Mit, il Massachusetts Institute of Technology di Boston, che hanno fatto «carriera». Entrambi economisti, il primo è docente universitario, editorialista e politico. Autore di decine di libri e centinaia di articoli, ha ricoperto l’incarico di viceministro per l’Economia e le Finanze tra il 2001 e il 2006. Oggi è presidente della Commissione Finanze e Tesoro del Senato. Il secondo, anche lui docente universitario ed editorialista, è autore di numerosi saggi di divulgazione economica ed è attualmente presidente di «Igier», l’«Innocenzo Gasparini Institute for Economic Research».
In quali anni siete stati al Mit e quale titolo di studio avete conseguito?
M.B. «Dal 1972 al 1974, poi ad intervalli fino al 1977. Sono PhD in Economics, classe 1978».
F.G. «Dal 1974 al 1978, quando ho ottenuto il PhD in Economics».
Avete poi trovato subito lavoro in Italia?
M.B. «Prima ancora di finire ero assistente all’Università di Torino e avevo un posto garantito al centro studi della Banca d’Italia. Dopo il PhD ricevetti un’offerta di trasferimento all’Università di Bologna ed un incarico per insegnare economia monetaria e creditizia alla Cattolica di Milano».
F.G. «Venni subito assunto all’Università di Padova».
Aver studiato negli Stati Uniti vi ha aiutati a fare carriera in Italia? E in che modo?
M.B. «E’ stato fondamentale. Quando vinsi il concorso da ordinario nel 1979, tra gli oltre 200 candidati solo in tre avevamo il PhD. In Italia non esisteva ancora il dottorato».
F.G. «Ho avuto un incarico solo grazie al PhD del Mit. Infatti, in Italia ero laureato in ingegneria e non avevo contatti con economisti italiani».
Perché, secondo voi, oggi è più difficile rientrare?
M.B. «Non è che prima fosse più semplice, era la selezione ad essere più seria. Il concorso era su base nazionale e i candidati, almeno per la mia esperienza, venivano scremati in tre gruppi: quelli meritevoli di andare in cattedra su cui non si discuteva, quelli non idonei che venivano scartati e quelli in forse, su cui si apriva il confronto e si raggiungeva un compromesso finale tra le varie scuole di pensiero. Sul versante aziendale c’erano poi più posti perché molte imprese facevano ricerca».
F.G. «A quei tempi pensavamo di non avere chance sul competitivo mercato del lavoro americano e quindi cercavamo lavoro solo in Italia. Per quello che vedo, oggi è normale che dopo il PhD si cerchi prima un posto in Usa e poi, se va male, in Europa, dando priorità a Spagna, Gran Bretagna e Svezia. Solo alla fine si prova in Italia».
Sapendo che quasi nessuno rientra in Italia, consigliereste ai vostri figli di andare a studiare negli Stati Uniti?
M.B. «Certamente. La priorità deve essere formarsi nel modo migliore. E’ vero che oggi più si impara, più è difficile tornare, ma questo è un problema dell’Italia».
F.G. «Entrambe le mie figlie sono già là per svolgere un PhD».