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 2010  marzo 31 Mercoledì calendario

ASTENSIONI L’8 PER MILLE DELLA POLEMICA

C’è un 8 per mille che doniamo ai signori dei partiti. E per lo più senza saperlo né volerlo, come succede per la Chiesa. Anche in questo caso il trucco c’è, ma non si vede. Però mentre il giochino inventato da Tremonti (e messo poi nero su bianco in una legge del 1985) ha via via innescato un fiume di proteste, qui invece tutti zitti, non ci accorgiamo nemmeno del raggiro.

Come funziona l’8 per mille religioso? Attraverso un marchingegno giuridico che calcola pure la scelta dei contribuenti che non scelgono. Ciascuno di noi, quando compila la dichiarazione dei redditi, può infatti mettere una firma per destinarlo in favore dello Stato, della Chiesa cattolica, di altri culti minori. Ma il 60% degli italiani resta con la penna in mano, firmano soltanto 4 su 10. Poco male, perché la torta viene comunque servita per intero, tagliandone le fette in proporzione alle scelte manifestate espressamente. E così la Cei si mette in tasca un miliardo di euro l’anno, pur meritandone neanche la metà.
L’8 per mille politico gira sui medesimi ingranaggi. Contano le schede votate, non quelle che nessuno ha provveduto a ritirare. I seggi in palio vengono distribuiti fino all’ultimo, anche se gli elettori hanno divorziato in massa dalle urne. D’altronde pure il finanziamento pubblico ai partiti riflette la stessa impostazione. E anche qui lo Stato non risparmia un euro, perché tutta la posta viene ripartita in base alle percentuali di consenso che ogni partito guadagna alle elezioni. Il non consenso, il popolo degli astenuti, diventa così un consenso tacito verso i padroni del vapore. A dispetto della matematica, ma forse - al punto in cui siamo arrivati - anche a dispetto della democrazia.
S’apre infatti una doppia questione dopo le elezioni regionali. Quella politica, certo: come recuperare alla nostra vita pubblica quanti se ne sono allontanati. I partiti - di destra e di sinistra - hanno subito promesso d’occuparsene, dato che a quanto pare l’astensionismo è bifronte come Giano. Che poi davvero ci riescano, è tutt’altra faccenda. C’è però un’altra faccia del problema: quella istituzionale. Sta di fatto che abbiamo appena registrato la più bassa affluenza della storia repubblicana: il 64,2%. Significa che il partito del non voto è ormai il primo partito politico italiano, ben più del Pdl, che a conti fatti riscuote il consenso di appena un italiano su 6. Anzi: se al 36% d’astenuti sommiamo le schede bianche e nulle, quel partito supera da Dc dei tempi d’oro. Tanto per dire, in Campania i voti invalidi toccano il 5,8%, in Lazio il 4,1%, in Basilicata il 6,7%, in Piemonte il 5,7%.
E allora è giusto lasciare senza voce il 40% del popolo italiano? Possiamo farlo, certo; però sapendo già in anticipo che in tale ipotesi la frustrazione non può che generare altra disaffezione. Oppure possiamo farci carico della domanda silenziosa uscita dalle urne. Quali che siano le sue ragioni individuali, il non voto esprime infatti un rifiuto della delega, e perciò l’aspirazione verso altri strumenti, altri canali di deliberazione. Sarebbe logico tenerne conto amputando in proporzione seggi e quattrini dei partiti, ma logica e politica non vanno quasi mai d’accordo; non per nulla Aristotele ne trattò in due opere distinte. Però dovremmo quantomeno potenziare gli istituti di democrazia diretta, a partire dal referendum, ormai rinsecchito come un vecchio tronco. Non accadrà, statene certi. Specialmente alle nostre latitudini, gli assenti hanno pur sempre torto, anche quando hanno ragione.