Mario Margiocco, Il Sole-24 Ore 31/3/2010;, 31 marzo 2010
OBAMA E LA MONTAGNA DERIVATI
Presentando il suo rapporto di fine gennaio 2010, Neil Barofsky- un ex magistrato capo di una minuscola agenzia federale creata nel 2008 a Washington per controllare come vengono utilizzati i 700 miliardi di aiuti alle banche (la Tarp)- era impietoso: «Stiamo percorrendo la stessa pericolosa strada di montagna,tutta curve,e con un’auto più veloce ancora ». Wall Street, dicono i dati ufficiali, è tornata a correre gli stessi rischi del 2007 e 2008. Nessuno ai vertici di Washington, Casa Bianca, Tesoro, leader congressuali, ha voluto finora fare un discorso chiaro e completo su cause, responsabilità e rimedi di una crisi che costerà ai bilanci pubblici americani piùo meno quanto la seconda guerra mondiale, sei o sette volte di più a famiglie e imprese insieme. Inferiore, ma non di moltissimo, il colpo per i conti pubblici europei. I mezzi di informazione, l’editoria libraria e vari economisti accademici (non tutti) si sono scatenati. Non così i vertici del potere.
La prima, completa e indispensabile analisi ufficiale del che cosa è successo, perché, e che cosa occorre fare perché non succeda più ha dovuto aspettare che pochi giorni fa un solitario senatore, spalleggiato da quattro colleghi, prendesse la parola.Lo ha fatto l’11 marzo 2010 dal suo scranno del Senato Ted Kaufman, democratico del Delaware, con un discorso di tredici pagine.
servito a spiegare perché lo stesso Kaufman e alcuni colleghi hanno introdotto nei giorni scorsi una versione rinforzata, rispetto a quella dell’esecutivo, del Volcker rule, il principio su cui da un anno e mezzo insiste l’ex presidente della Fed, Paul Volcker, per affrontare il nodo tra banche troppo grandi per fallire, che vanno salvate, e che vorrebbero però ugualmente continuare a correre tutti i rischi ritenuti opportuni nel tentativo di massimizzare gli utili. Con l’eventualità di scaricarli poi alla fine, se lo scenario si oscura come è avvenuto, sui contribuenti. Kaufman ha spiegato perché non sono gli esperti, ma è la politica, il Senato in particolare, che deve dettare le regole.
I dati rilasciati la settimana scorsa dall’Occ (Office of Comptroller of the currency) dicono che l’esposizione netta al rischio in derivati nel sistema bancario è scesa del 18% nell’ultimo trimestre 2009 ed è ora di 398 miliardi contro gli 800 del 2008. Anche il livello di indebitamento, il leverage,
è sceso per le grandi banche, poiché rispetto a un anno e mezzo fa è aumentato il capitale. Ma le prime venti banche americane, ha ricordato Thomas Hoenig, presidente della Federal reserve di Kansas City, sono comunque troppo esposte e per arrivare al livello di leverage richiesto alle banche regionali dovrebbero o aumentare di 210 miliardi il capitale, o diminuire di 3mila miliardi gli asset. Solo la garanzia ormai esplicita di Washington le rende credibili.
Anche dall’accademia arrivano osservazioni importanti. Un saggio prodotto dal Levy economic Institute di Bard College, è la sponda ideale del ragionamento del senatore Kaufman. Si tratta di The Global Financial Crisis and the Shift to Shadow Banking, Yeva Nersisyan e L. Randall Wray, due economisti dell’università del Missouri collegati con il Levy Institute.
Il Bard College è una piccola scuola nella valle dell’Hudson, ad Annandale on Hudson, due ore a nord di New York. anche il custode dell’eredità di Hyman Minsky, (1919-1996) il grande economista che a Bard College passò gli ultimi anni e che, misconosciuto in vita, è esaltato oggi come preveggente. Mettendo in guardia contro gli eccessi della finanziarizzazione, una finanza che in stadi successivi diventava sempre più fine a se stessa, Minsky aveva certamente in parte previsto gli eccessi di rischio e di debiti e lo svuotamento delle regole poi balzato chiaro agli occhi di tutti nel 2007-2008.
Al centro dell’analisidi Nersisyan e Wray, in termini di ortodossia minskiana, ci sono i dati ufficiali della Federal deposit insurance corporation (Fdic, nelle sue Sdi o Statistics on depositary institutions) sulla presenza dei derivati nei libri contabili di alcune delle maggiori banche americane (si veda il grafico in alto). I derivati sono calcolati in valore nozionale, cioè nel valore dei contratti sul sottostante dal quale derivano, swaps sui tassi di interesse soprattutto, ma anche garanzie su obbligazioni sovereign e non, su indici, su commodities e altro. Già nel 2001 il valore dei contratti derivati superava il 1500% degli asset tradizionali della banca per Bank of America, il 1083% per Citigroup, il 3992% per Jp Morgan Chase. Ma il dato più interessante è che gli stessi livelli del 2008,l’anno della crisi, venivano uguagliati o superati come si vede al 30 giugno del 2009. BoA aveva il 2111% nel 2008 e il 2221 a giugno 2009, e solo Jp Morgan Chase scendeva di pochi punti percentuali. Fuori concorso poi la situazione di Goldman Sachs i cui contratti ammontavano al 25mila per cento degli asset nel 2008 e a quasi il 34mila al 30 giugno 2009.
Questi dati sono la conferma che il sistema delle grandi banche che controllano il mercato americano dei derivati è sempre troppo basato su questi prodotti, utili se usati con misura, ma spesso potenzialmente a rischio, alcuni più di altri, e che procurano con le commissioni di gran lunga il grosso degli utili bancari. Sta tutto in questi livelli di rischio l’anno record 2009, con i suoi 55 miliardi complessivi di utili per le maggiori banche di Wall Street. Come nel 2008 così oggi i derivati non sono regolati. Su di essi Washington discute con calma e procede, come ha scritto Frank Rich del New York Times, all’ombra «di un presidente troppo timido per affrontare i sostenitori finanziari della sua campagna elettorale ( oi loro tribuni nella sua stessa amministrazione), e troppo timoroso di apparire come un volgare partigiano populista...».
«Senza un discorso definitivo – ha osservato subito dopo l’intervento di Kaufman Simon Johnson, docente Mit,ex capo dell’ufficio studi del Fondo monetario e da tempo molto critico sui silenzi e le compromissioni di Washington – non c’è convergenza nel dibattito, e non c’è neppure un minimo di chiarezza su che cosa dovremmo discutere. Senza il discorso giusto, ci sono soltanto molti lobbisti che solcano i corridoi del potere e molti accordi fatti nell’ombra e che la maggior parte della gente non riesce a capire, ed è bene che non capisca».
Obama si era avvicinato due volte a tenere quel discorso, secondo Johnson. Parlando a settembre 2009 ai banchieri, riuniti nella Federal Hall di New York, ormai rinfrancati e sornioni dopo le grandi paure che li avevano turbati fino a marzo. E parlando alla nazione il 21 gennaio dalla Casa Bianca, con a fianco Paul Volcker, riportato agli onori della cronaca dopo un anno di oblio e ostracismo dalla grave sconfitta elettorale due giorni prima nel Massachu-setts, con il passaggio a sorpresa ai repubblicani dello storico seggio senatoriale dei Kennedy. Volcker aveva e ha il titolo di consulente part time, ma Lawrence Summers, lo stratega economico di Obama, segue in genere altri consigli.
Ma il presidente, convinto che Wall Street andasse aiutata a ripartire e che le riforme dovessero essere decise con Wall Street e non contro di essa come aveva fatto invece Roosevelt negli anni Trenta, si è finora sempre fermato sulla soglia. Michael Lewis,l’antesignano dei trader finanziari passato al giornalismo di denuncia e attento a stimato osservatore del mondo finanziario, ha buone speranze che il Senato possa riuscire a prendere il bandolo della matassa e a produrre una riforma significativa. Prima del voto di novembre 2010 dovrà essere pronta.