Davide Frattini, Corriere della Sera 29/03/2010, 29 marzo 2010
PALESTINESI NEI CANTIERI DEL «NEMICO». «ORA LAVORIAMO ANCHE PER I COLONI»
Lo scheletro di cemento del palazzo di re Hussein sta sulla collina di fronte, la guerra persa dai giordani ha paralizzato la costruzione oltre quarant’anni fa. Le ruspe sono ferme anche nella valle sotto Ramat Shlomo, congelate dalla guerra fredda di queste settimane tra gli Stati Uniti e Israele.
I muratori continuano invece a mischiare la malta per tirare su le ville private, palazzi che hanno ottenuto i permessi prima della crisi diplomatica con gli americani e che non attraggono l’attenzione internazionale. Così Ramat Shlomo si espande un lotto alla volta. La lingua dei cantieri è l’arabo, gli operai sono di Gerusalemme Est. Lo stop che Washington vuole imporre (niente nuovi edifici nella parte orientale) per loro significherebbe una vittoria politica e la perdita dello stipendio. «I committenti sono quasi tutti israeliani, i palestinesi rappresentato per me solo l’1 per cento », commenta Assad.
Mohammed, fabbro di 35 anni, arriva dal quartiere di Al-Ram, nella parte nord-orientale: «Ho sempre lavorato per gli israeliani in queste zone. Che ci posso fare, ho bisogno dei soldi. Mi sono rifiutato solo di partecipare alla costruzione del muro. Non mi sento di criticare chi accetta impieghi perfino nelle colonie in Cisgiordania. L’Autorità palestinese non è in grado di offrire alternative, di combattere la disoccupazione».
Il governo di Ramallah ha allestito «il fondo per la dignità», 2 milioni di dollari da usare per convincere i contadini o i muratori a non alimentare il mercato attorno agli insediamenti: ogni anno – secondo i dati raccolti dai palestinesi – prodotti per il valore di 500 milioni di dollari raggiungono i territori dalle colonie.
Dal piccolo villaggio di Taamera, almeno 200 arabi vanno a lavorare in cima alla collina, nell’insediamento ebraico di Tikua. Non hanno il permesso per entrare a Gerusalemme e qui prendono il 50 per cento in meno. Ayman (il figlio) arriva a mettere insieme 120 shekel al giorno, poco più di venti euro. Mohammad (il padre) guadagna quattro volte tanto come piastrellista in città, nella parte Est.
I lavoratori illegali come Jabber non si arrischiano ad accettare clienti israeliani, è già stato arrestato ed espulso troppe volte. Jabber e il suo clan (tutti parenti, arrivano dalle colline a sud di Hebron) costruiscono per gli arabi nei quartieri di Gerusalemme.
Per venire a Gerusalemme, deve superare la barriera di sicurezza che circonda la Cisgiordania. Voluta da Ariel Sharon per fermare gli attentatori suicidi, viene aggirata ogni giorno da clandestini come lui. «Abbiamo trovato un tunnel, è il tubo di una fognatura. rischioso, ma non abbiamo altra scelta. Entriamo disoccupati e ci ritroviamo dall’altra parte con un lavoro».
Davide Frattini