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 2010  marzo 29 Lunedì calendario

Notizie su patrioti ed esuli degli anni Venti-Trenta dell’Ottocento. • Decio Valentini, romagnolo, nel gennaio 1831 ("Assicurazioni sull’avvenire d’Italia"): puntare sulla gioventù («[

Notizie su patrioti ed esuli degli anni Venti-Trenta dell’Ottocento. • Decio Valentini, romagnolo, nel gennaio 1831 ("Assicurazioni sull’avvenire d’Italia"): puntare sulla gioventù («[...] compie pericolosissime missioni; copre difficilissimi uffici; rassicura gli incerti; corregge i difetti degli annosi parenti ancora invasi di rancidi pregiudizi [...]»), rassicurare i possessori di «ricchi patrimoni», che avranno nel nuovo stato cariche pubbliche adeguate alla loro posizione sociale. «L’istituire delle adunanze nazionali, in cui seggano a consiglio i migliori soggetti, il limitare la potenza di un sol uomo re, e il chiedergli conto del suo operato, il partecipare di ciascuno formalmente all’enorme edificio della costituzione sociale, la libertà del pensiero e della stampa sotto la tutela delle leggi, ci pare, sono cose, che debbono piacere [a tutti]». • Giuseppe Pecchio, lombardo, prima metà del 1830 ("Catechismo italiano"): federazione italiana limitata a tre soli stati (Due Sicilie, domini Pontifici, Alta Italia), re sabaudo con Lombardo-Veneto, Ducati, Legazioni e Marche. Monarchia rappresentativa mitigata da libera costituzione. Camera dei Comuni formata dai cittadini «più nobili per scienza, probità ed indipendenza»; Camera dei Pari, con vescovi e nobili. Formazione di un ampio mercato non più frazionato da molteplici linee doganali, premessa per il rifiorimento di agricoltura, manifatture e commercio. • Giovan Battista Marocchetti, piemontese, ristampando ampliato nel 1830 un vecchio lavoro del ’27 (Indépendence d’Italie): trono popolare «riconosciuto cioè dal popolo e circondato da istituzioni repubblicane», però mai col suffragio universale: «Ancora una volta, per il fatto d’essere basato sulla sovranità del popolo e ordinato a suo profitto, un governo non è per ciò solo democratico, alla maniera del governo messo in pratica dai popoli antichi. Tentare l’applicazione di un tale sistema ai nostri giorni sarebbe il colmo della demenza, specie nei grandi Stati; perché, fino a un certo punto, e in molti casi, è incontestabile che i voti devono pesarsi, invece di contarsi. Il voto perpetuo e universale sarebbe oggi l’anarchia più completa; sarebbe il peggiore tra tutti i regimi per la classe la più numerosa, che ha bisogno delle sue braccia per vivere, e al tempo stesso il più illiberale, poiché tornerebbe tutto a profitto degli intriganti, e degli uomini che hanno influenza sul popolo, ... in una parola delle classi aristocratiche e dei ricchi». Ruolo egemonico a casa Savoia anche in un’Italia federale. L’opinione filosabauda era «il sentimento della generalità dei Piemontesi, ed anche di una gran parte degli altri esuli italiani, soprattutto a paragone della casa austriaca di Modena». • Francesco Paolo Bozzelli, pugliese da Manfredonia vissuto a Napoli, moderato costituzionale, consiglia al re di Napoli la costituzione delle Tre Giornate invece di quella spagnola del ’12. • Francesco Saverio Salvi, calabrese, autore alla fine degli anni Trenta di "Les trois journées de Paris", rimasto inedito. Monarchia alla maniera di Luigi Filippo, le idee repubblicane troppo pure e perfette perché potessero convenire alla «moltitudine non ancora capace di riceverle» avrebbero finito col fare «altrettante vittime dei pochi loro apostoli» e con l’esporre tutti «ai furori dell’anarchia e alla necessità del dispotismo militare», per cui in definitiva meglio «tenersi paghi del perfezionamento progressivo di una monarchia rappresentativa». • Carlo Bianco di Saint-Jorioz, piemontese, "Della guerra nazionale d’insurrezione per bande, applicata all’Italia" (pubblicato a Marsiglia nella prima metà del 1830). Gli Italiani, «"il zimbello dei tiranni, lo scherno degli stranieri, il vitupero delle genti"», a causa della divisione del Paese in stati aritificiali e delle borie municipali stimolate a bella posta dai nemici della libertà. Quindi, puntare a «un corpo solo di nazione», indipendente e libera, senza fare affidamento sull’aiuto straniero e neanche sui principi italiani, intenti ad ammassare ricchezze a spese dei loro sudditi e a «"corrompere e viziare l’onestà e i buoni costumi"» fomentando egoismo e brama di lusso. Dettagli sulla guerra partigiana (per bande) da condurre in Italia. Influenza del Buonarroti, con cui comune radice rousseauiana: contrapposizione tra la minoranza dei ricchi, paga di trascorrere «"nelle mollezze, e lusso... un viver guasto e licenzioso"» e la maggioranza dominata e sfruttata. Idealizzazione del mondo contadino (Rousseau), fortificato dal contatto con la natura e libero dai bisogni artificiali e raffinati, ostilità verso le capitali e le grandi città viste come sentine di vizi, fomiti di corruzione e generatrici di uomini effemminati (epurare le città dei suoi abitanti fiacchi e snervati, fecondarle con «"robusti e decisi"» romagnoli e montanari piemontesi, abruzzesi, calabresi. Identità di vedute col Buonarroti «quando prendeva a parlare della struttura e dei compiti degli organi del potere rivoluzionario nella fase insurrezionale e in quella del consolidamento della vittoria». Benché la fonte della democrazia e la legittimazione di qualunque potere fosse nel popolo, «sarebbe però stato un errore imperdonabile mettere in vigore la nuova costituzione prima di aver completato la liberazione del Paese e prima di aver realizzato, con un "generale sistema di depurazione", necessariamente violento, lo sterminio di tutti gli elementi ostili al movimento nazionale». «"Converrà [...] che con un sistema transitorio, con disposizioni provvisionali, con misure energiche, forti, pronte, e generali, prima di mettersi in vigore la benefica costituzione, che vede tutt’i cittadini eguali, e tutti senza distinzione protegga, dalle virulente immondizie il paese con diligenza si depuri" [...] Gli organi rivoluzionari investiti delle funzioni civili [...] erano collocati su un piano di netta subordinazione al massimo condottiero militare (uomo "d’un cuore duro, ed inaccessibile a qualunque grido di pietà") [...] che avrebbe assommato in sé poteri dittatoriali» (pag. 31-33). Vedi più avanti l’"Invito ai patriotti italiani", apparso a Marsiglia nel settembre 1830 e quasi sicuramente redatto dal Bianco con l’aiuto del Nicolai • Ancora sul trattato, come elemento decisivo di influenza sui primi statuti della Giovine Italia, in 77 e seguenti. «"Vile sarebbe colui che, per impugnar le armi onde costituirsi una patria, la paga pretendesse"», «"Nello stato attuale del mondo il personale guadagno di denaro è, parlando di masse, come il motore diretto, od indiretto di tutte le umane azioni"». Si ribadisce che la guerra per bande va condotta «con spietata determinazione: come non ci sarebbe stato quartiere per nessun avversario, come la "santità del motivo" avrebbe giustificato l’impegno di tutti i mezzi, al di là di "qualunque considerazione di onore, d’umanità e di religione", così gli italiani avrebbero dovuto mostrarsi pronti a qualunque sacrificio, compresa l’applicazione su vasta scala del sistema della terra bruciata». «A giudizio del Bianco la lotta avrebbe potuto essere coronata dalla vittoria anche perché l’Italia offriva dovizia di elementi favorevoli alla guerra per bande. Anzitutto le caratteristiche geografiche del territorio [...] e poi le qualità degli abitanti: e qui il Bianco non puntava su quelli delle città, sui "signori" e i giovani effemminati "che ad altro non pensano che ad indebolirsi il corpo, e a perdere la salute, vivendo nelle antezze e profusioni di ogni genere", ma - con un’idealizzazione del mondo rurale che avvalora l’ipotesi di una formazione rousseauiana del piemontese - sulle gagliarde popolazioni dei contadi e delle montagne, sulla classe di quegli "onesti e frugali abitanti dei borghi e dei villaggi", agricoltori, pastori, massari, che erano considerati il nerbo della guerra per bande in virtù della loro sobria frugalità e della capacità di durare fatiche intollerabili per gli snervati "cittadini"» (pagina 80, vedi anche scheda 203.785 su Mazzini) • Domenico Nicolai del Canneto, pugliese, "Considerazioni sull’Italia", seconda metà del 1830. L’Italia faccia da sé («"una patria forte di 20 milioni di figli..."»). Contro il federalismo («"Conoscano gl’innamorati della federazione degli Stati d’Italia o principesca, o repubblicana che per la divisione soltanto, rimane ora l’Italia sotto la supremazia de’ barbari, e che in un’epoca così pregna di sorti sinistre ai potenti, non possono i principi che tengono le sparse sue membra serbare intatta l’arca della tirannide, che col fomentare il pensiero d’italiane federazioni"». Concedere tuttavia ampie autonomie a comuni e province. Non discutere adesso dei re futuri e in definitiva neanche dell’assetto istituzionale: benché sia auspicabile la repubblica, se il popolo vorrà la monarchia ci si rassegni (però «"almeno il popolo elegga il suo capo, gli dia la legge, lo stringa ad andare d’accordo cogli uomini del popolo, che la nazione dovra nominare»). Vedi più avanti l’"Invito ai patriotti italiani", apparso a Marsiglia nel settembre 1830 e quasi sicuramente redatto dal Bianco con l’aiuto del Nicolai (33-35). quasi certamente del Nicolai, con la collaborazione del Bianco e di Mazzini, l’opuscolo intitolato "Appello agli Italiani", dato alle stampe verso la metà del 1831, in cui si attribuisce il fallimento degli ultimi moti «"nella mancanza di unione", conseguenza di quel "maledetto amore di municipio" che aveva reso gli Italiani stranieri gli uni agli altri, persuadendoli che "l’interesse del’una parte d’Italia non è quello dell’altra, e che quella può governarsi ed esistere disgiuntamente da questa"». Sfiducia nella Francia, benché «"madre della moderna libertà di tutti i popoli inciviliti"» perché «"l’albero della libertà non getta profonde radici se non è piantato da mano cittadina, se da cittadino sangue non è fecondato"» (66-67). • Michele Palmieri di Micciché, siciliano, "Pensées et souvenirs". Antifrancese e deluso da Luigi Filippo, federalista a causa delle «condizioni di primitivismo politico della grande maggioranza delle masse italiane. Il Palmieri riteneva infatti impossibile che "popoli senza lumi, e che non avevano ispirato per secoli che il veleno dell’assolutismo", percorressero rapidamente e senza soste l’immenso "spazio morale" che divideva il dispotismo da una repubblica bene organizzata; e giudicava quindi preferibile stabilire un sistema di repubbliche federate, che avrebbe offerto il doppio vantaggio di attenuare ed estinguere le gelosie e gli spiriti municipali, e di rendere meno pericolosi [...] i sussulti che avrebbero accompagnato la concessione della libertà a "popoli poveri e senza grande istruzione"» (pag. 35-37). Analizzando poi in un opuscolo del maggio 1831 la ragione della sconfitta nei moti di quell’anno, egli la individuava nella mollezza della direzione (i membri del Governo delle Provincie Unite erano fatti polemicamente uguali al juste milieu francese) e nella decadenza politica della Francia «nazione "ormai assopita in mezzo ai piaceri". La Rivoluzione non era ormai alla portata che di «un paese povero e sfruttato dal dispotismo come l’Italia, "ove la miseria riunisce tutti gl’interessi, ove i disagi e i patimenti sono generali" rendendo generale "il coraggio della disperazione"» (62-63). • "Invito ai patriotti italiani", apparso a Marsiglia nel settembre 1830 e quasi sicuramente redatto dal Bianco con l’aiuto del Nicolai. Manifesto programmatico-organizzativo presentato alle forze patriottiche nella prospettiva di quell’insurrezione prevista come imminente. Bisognava che l’Italia insorgesse tutta insieme «"dalle Alpi all’Etna"», qualunque movimento parziale doversi sottomettere a quello generale, «"si rigetterà l’insultante, l’ingannevole dono principesco di una costituzione regia che dividerebbe Italia e ritarderebbe la sua verà libertà"». «"La patria se non è una, non è forte; se non è forte, non potrà mai essere veramente libera"». «Lo sbocco unitario era indicato ancora più esplicitamente poco più avanti, quando si formulava come obiettivo finale quello di «"formare una sola nazione avente una sola costituzione, un solo parlamento nazionale, un solo governo centrale rappresentativo, un solo esercito, una sola moneta, un solo codice di leggi"». Vietato nella fase preventiva discutere dell’assetto istituzionale. Seguivano istruzioni sulla guerra per bande: «"prima che si faccia alcuna irruzione, li centri segreti ecciteranno li cittadini a segretamente danneggiare l’armata austriaca in marcia verso l’interno dell’Italia,... per provocare la loro vendetta, svegliare l’alto sentimento della legittima difesa negl’Italiani, ed indurgli a torre di mezzo gl’ufficiali, e capi delle truppe nemiche, che per tal modo s’indeboliranno, diminuiranno di numero, si disorganizzeranno, si renderanno meno atte a resistere poi agli attacchi de’ corpi di partigiani che cadranno alle loro spalle, appena siano inoltrate al di là dei confini di Lombardia e del Veneziano"». Negli statuti della setta degli Apofasimeni, scritti sempre dal Bianco, si svelava l’obiettivo repubblicano solo al secondo grado di affiliazione (centurioni) e «si affermava la necessità di condurre la lotta con spietata determinazione, perché la "santità del motivo" giustificava l’impiego con tutti i mezzi ("al di là di qualunque considerazione di onore, d’umanità e di religione"), inclusi gli inganni e i raggiri, l’avvelenamento dei pozzi e delle farine e l’uccisione dei prigionieri, così l’Apofasimeno riconosceva "per sacrosanta la massima che la sanità dello scopo santifica i mezzi che mi si presentano, anche di quelli considerati come bassi, per riuscire nell’intento, siano essi la congiura, il veleno ecc."» • Gioacchino Prati, trentino, parlando a Parigi nella sede degli Amis du peuple intorno all’ottobre del 1830, «insisteva sulla necessità di "promuovere l’emancipazione delle masse che sono continuamente oppresse da pochi" e di realizzare una stabile eguaglianza sociale attraverso "istituzioni che evitino ai pochi di acquistare per loro la ricchezza e la potenza, le quali sono cagione di miseria per i più, e che assicurino a tutti quanto è necessario per soddisfare i propri desideri naturali"» (43, nota 143). Influenzato da Buonarroti (sotto). • Filippo Buonarroti, pisano, nel 1830 aveva 69 anni. Nel 1828 aveva scritto (da Wikipedia): «Si strappino i confini delle proprietà, si riconducano tutti i beni in un unico patrimonio comune, e la patria - unica signora, madre dolcissima per tutti - somministri in misura eguale ai diletti e liberi suoi figli il vitto, l’educazione e il lavoro». Dopo le tre giornate di luglio, torna a Parigi (20 agosto 1830), appoggiandosi alle società popolari francesi propaganda suffragio universale, imposta progressiva, abolizione delle imposte indirette, leggi suntuarie, governo a buon mercato, contrapposizione tra un’esigua minoranza di sfruttatori e un’enorme maggioranza di sfruttati, critica al diritto di proprietà, douce égalité come eguaglianza di condizioni sociali, apologia della costituzione del 1793, ecc. Dapprima opera in Francia e Belgio, poi, alla fine dell’anno, si concentra sull’Italia. Lettera sulla parigina "Révolution" del 14 ottobre («"le masse [...] simili a un grande fiume straripante purificheranno la nazione facendo sparire tutto quello che la impaccia, la ferisce e l’opprime [...] Non c’è che l’entusiasmo veemente e generale del popolo intero che possa cacciare gli stranieri e dare all’Italia una nuova vita; questo entusiasmo non può essere generato che dalla santa religione della libertà e dell’eguaglianza"»). Contro Carlo Alberto e i modenesi (pag 44-47). Dittatura rivoluzionaria. Idee che finiscono in una lettera del Prati (vedi sopra) scritta il 26 gennaio 1831 al De Messter: «Il popolo... bisogna formarlo, renderlo libero e eguale. In poche parole conviene fare ciò che Licurgo, Solone, Mosè e tutti i rigeneratori dei popoli han fatto... formare un piano di governo razionale e introdurlo francamente e dittatoriamente... L’educazione e i veri vantaggi che dal vivere libero risultano faranno poi adottare dal popolo divenuto maggiore gli ordini, che gli avremo dati nella sua età pupillare» (47). Cooptato nella Giunta Liberatrice Italiana (scheda 203.618), giudica severamente i moti dell’Italia centrale: «Amici! Guardatevi dalle insidie; quei re che tante volte mentirono, quei re che in mille modi v’opprimono,... vedendosi ora alle strette, v’offriranno una costituzione... Respingete i doni avvelenati dei tiranni, e non lasciate in mano altrui quella autorità che a voi soli compete"» (contrasti con i moderati, Poerio ecc., pag. 49). Pubblica poi nel marzo 1831 i "Riflessi sul governo federativo applicato all’Italia". Sia dato alle masse l’esercizio reale della sovranità, cioè «"il gius d’approvare o rigettare le leggi"», si realizzi «"la massima eguaglianza in robe e in potere" ed "una gran somiglianza nei lumi necessari a ciascheduno" condizioni mancando le quali "subito la città si riempie di potenti che sforzano la volontà dei deboli e dei miseri, che per danaro s’avviliscono e vogliono a modo altrui"». Contro l’assetto federale che oltre tutto permetterebbe a qualche stato di «"fomentare il lusso, l’opulenza, le distinzioni, e la disuguaglianza"». Infine: «"Il primo passo da farsi onde condurre a bene una rivoluzione italiana si è di porvi in piedi una signoria unica, rivoluzionaria e dittatoriale, cui venga addossato l’incarico di compier la rivoluzione, di spianare tutti gl’ostacoli, di stabilire l’uguaglianza, di preparare la nazione all’esercizio della sovranità, e finalmente d’erigervi le forme costituzionali fisse come l’ultimo scopo di detta straordinaria autorità"». • Benedetto Allemandi, piemontese, «entrato assai giovane nell’arma dei carabinieri sardi, aveva il grado di sottotenente quando scoppiarono i moti del 1821. Fu uno dei pochi carabinieri che parteciparono alla rivoluzione o sostenne il nuovo regime. Fu sotto questo promosso tenente il 4 aprile 1821 e si espose così ai rigori del senato di Torino, il quale con sentenza del 13 aprile 1822 lo condannava a 20 anni di galera. Ma già al cadere della fortuna costituzionale l’A. s’era rifugiato all’estero nella vicina Svizzera, dove rimase lungamente mantenendo sempre rapporti coi novatori. Nel 1830, mentre i fatti della Francia, del Belgio e della Polonia indicavano un risveglio rivoluzionario, diresse un proclama ai soldati piemontesi, invitandoli a disertare, ed anche successivamente cercò di mettersi in rapporto coi liberali del Piemonte e di eccitarli alla rivolta. Quindi non godette dei varii indulti di Carlo Alberto» (nota a cura di M. ROSI in http://www.dizionariorosi.it/schedaPersona.php?id=764). Il manifesto in questione, redatto nell’aprile, invitava «"i bravi soldati piemontesi" a rifiutarsi di servire sotto Carlo Felice, "sordido tiranno, ed imbecille monarca", protettore di nobili fatui e di ecclesiastici intriganti • Proclama circolante in marzo nel mantovano: «"Destatevi o gran ricchi possidenti, o nobili signori, dall’inganno in cui giaceste fin ora [...] La protezione che sembra accordare alla nobiltà la mortale e rancida bandiera non è che per illudere la vostra vanagloria... e smungervi tacitamente dei beni reali. Destatevi, o commercianti, difendete il vostro traffico da mille tasse, da mille inciampi. Destatevi, o agricoltori, di miseria pieni e di lamenti, riunitevi in truppe, scacciate gli assassini ai quali foste astretti dar vostri figli per opprimere ed angariare quelle terre sulle quali gronda il sudor vostro inutilmente; scacciate quei tiranni che trattandovi come giumenti impongono alle vostre teste un dazio"». • Paolo Costa, «letterato classicista», che FDP colloca nelle Legazioni, autore del "Discorso intorno al governo costituzionale". Il Discorso «ammetteva che il popolo fosse depositario della sovranità, ma soltanto "virtualmente", perché nella pratica le moltitudini incolte non potevano esercitare il potere legislativo, per cui il godimento dei diritti elettorali avrebbe dovuto essere attribuito solo ai nobili, agli ecclesiastici e ai "mediocri" dei ceto medio, escludendone invece i "poveri". Che era una linea che trovò altri sostenitori nei giornali venuti alla luce in quelle settimane a Bologna, dal "Precursore", che chiedeva la creazione di un corpo rappresentativo formato esclusivamente da "possidenti" e "dotti" (8 febbraio 1831), al "Moderno", sulle cui pagine si proclamavano i vantaggi della democrazia per concludere che bisognava però "evitare altresì al basso popolo di impadronirsi degli affari, col non permettergli cose alle quali non abbiano un diritto assoluto" (23 febbraio 1831). E del resto, nella logica di questa impostazione, l’assemblea che si raccolse a Bologna il 26 febbraio 1831 e da cui uscì il Governo delle Provincie Unite Italiane fu una riunione di notabili e non un’assise rappresentativa. Senza dire che la timidezza politica degli uomini andati al potere trovò poi un ulteriore incentivo nelle preoccupazioni suscitate dai fermenti sociali che agitavano i ceti popolari, e che si manifestarono tra l’altro nei tumulti scoppiati il 20-21 febbraio 1831 a Ferrara per l’alto prezzo delle granaglie e nel vivo malcontento diffusosi in quegli stessi giorni per l’aggravamento della disoccupazione». Nella cronaca bolognese di Francesco Rangone, all’8 aprile, si legge: «La miseria passeggia orribilmente nelle nostre contrade... Muratori, artisti di ogni genere e facchini questuano ad ogni cosa, ad ogni capo di strada, e si uniscono in gruppi». • Carlo Antonio Pezzi, esule a Parigi, in "Sulla costituzione che si dovrebbe dare all’Italia resa che fosse indipendente", influenza Mazzini dei primi statuti della Giovine Italia (75-77) • Pietro Magnani, viaggiatore per la Giovine Italia e confidente delle autorità sarde (94, n. 67), raccontò di aver incontrato Mazzini a Marsiglia al caffè americano. • Gerardo Marchese, arrestato il 10 gennaio 1832 con molte copie dell’Istruzione pel popolo italiano (vedi scheda 203.785). «Nei mesi precedenti aveva cercato, forse per conto della Giovine Italia, "di insinuarsi negli animi della bassa plebe, priva di mezzi di sussistenza, bisognosa, e vagabonda, procurando di cumulare, e far cumulare, della gente che all’occorrenza si fosse mossa a tumulto" (relazione della presidenza del Buon Governo)» (95-96). • Carlo Pisani Dossi, piemontese, fondatori degli Indipendenti, ideatore della spedizione in Savoia del 1831, «sostanzialmente propenso a a soluzioni monarchico-costituzionali e bonapartiste» (101). • Fedele Bono, lombardo, «nipote per parte paterna di quel conte Benedetto che ricoprì cariche di rilievo durante il Regno italico e che ebbe tra i suoi figli Adelaide Cairoli Bono, la madre dei fratelli Cairoli». Arruolato tra i buonarrotiani dall’Olivero, puntualizzò le differenze tra la Giovine Italia e l’altro "ordine" così: «la prima lavorava per uno scopo vicino, l’insurrezione nazionale, mentre il secondo si proponeva uno scopo sublime ma lontano, vale a dire l’eguaglianza sociale. Ragionamento del Bono (in una lettera all’Olivero): «Non si corre sempre agli estremi in Francia? Un giorno il popolo è plebe stupida, è un corpo senz’anima, un altro è intelligente e saggio, è un ammasso di filosofi naturali. Non è egli meglio che questo popolo assapori a gradi la felicità che gli si prepara? Inonda un campo d’acqua e divien sterile, irrigalo lentamente e fruttifica. Non lavora più saggiamente il nostro istituto minando il potere dei ricchi a poco a poco, istruendo il popolo a gradi, preparandolo progressivamente alla felicità che lo aspetta?"»