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 2010  marzo 29 Lunedì calendario

IL FAR WEST DELLA COCA (II

puntata, vedi frammento 203536) -
Ieri, in Italia era ormai notte fatta, ma il sole sulla testa e il fuso orario dicevano, invece, che qui mezzogiorno era appena passato, mentre sull’auto ascoltavo da Radio Juàrez che i morti ammazzati della mattinata erano già quattro. Quattro, e ancora c’era tutto il giorno da far passare. La città sembrava addormentata sotto il sole rovente che inchiodava la domenica, con le strade senza gente e solo qualche rara camionetta che filava via veloce, nella solitudine silenziosa del nulla. Ciudad Juàrez sembra una pellicola di Sergio Leone, con le case tutte basse, a un piano solamente, e l’aria che - appena l’attacca il vento che viene dal deserto - la seppellisce dentro una foschia di sabbia gialla che chiude il cielo e ammanta crudele gli occhi. Attraversarla è un viaggio senza fine, perché qui non esistono grattacieli né edifici che svettino sulla monotonia piatta dei muri bianchi di calce, e farvi stare quasi 2 milioni di persone vuol dire costruirci un’infinita infinità di casette che riempiono ogni orizzonte. Clint Eastwood ci passerebbe dentro che a vederlo sarebbe del tutto naturale, con il suo poncho a righe scure e il revolver che spunta sotto, nel cinturone.
Ma Leone ed Eastwood erano una pellicola, mentre qui la gente l’ammazzano davvero. «Ecco, laggiù ne hanno ammazzati otto». Ah, dico io, otto. «Sì, e a due gli hanno tagliato la testa». E dopo nemmeno un chilometro, «E sotto quel muro, a tre gli hanno sparato in piena faccia». Ah, in piena faccia. «Sì, e li hanno combinati che quasi non si sapeva chi erano». Miguel Peréa, «Mike»per gli amici, è un vecchio giornalista messicano, che vive la sua pensione su uno scassato e sfondato Mercury del ”93 che è tenuto su dai fili di ferro e dalla pietosa volontà della Vergine di Guadalupe. Lui ha i capelli grigi lunghi e la faccia di mille rughe che davvero sembra Geronimo; ha perso - chissà quando - due denti sopra e uno sotto, e quando parla, la S gli sibila come il vento. Ma Mike, di Ciudad Juàrez sa tutto; e come si fa in guerra, un reporter che viene quaggiù ha un bisogno vitale di qualcuno che sappia tutto. Che poi significa uno che non solamente ti dice qui ne hanno fatto fuori otto e laggiù tre, ma soprattutto uno che sa in quali posti puoi farti vedere senza che le probabilità di beccarti una pallottola di Beretta 9mm vadano fuori da ogni ragionevole controllo.
E quando siamo tornati all’obitorio a saperne di più si è visto che questa non è per nulla una pellicola. Perché, nei film, il reporter arriva, fa qualche domanda tanto per attaccare, sgancia 50 o 100 dollari, e l’infermiere gli apre la cellula del frigorifero e gli piazza il cadavere davanti agli occhi. Nella realtà, l’infermiere del Laboratorio de Ciencias Sociales ha continuato a far di no con la testa, e la sola cosa che i 50 dollari gli hanno tirato fuori era lo scempio agghiacciante di molti di quei cadaveri impilati nelle celle frigo, avvolti dal puzzo della formalina. Faceva il racconto senza inflessioni, come una lista della spesa: teste tagliate, braccia e gambe mozzate, pezzi di corpo che hanno perduto ogni identità umana, sadismo consumato - prima e dopo l’assassinio - con una ferocia che, per chi ne ascoltava la descrizione, va al di là di ogni immaginabile patologia psichiatrica.
«Devono spargere il terrore, farlo stendere sulla città come questa merda di sabbia che ti entra dappertutto». Lo dice piano, Mike, senza orrore né indignazione, ma, a conoscerlo, è uno duro. Il terrore inserito nel quotidiano a piccole quote omeopatiche che, alla fine, ti fanno accettare tutto e però ti fanno vivere come nei racconti angosciosi di Stephen King, che continui a fare le tue cose come sempre e però sai che, nel buio del tempo che viene, c’è in agguato il mostro della violenza.
Ciudad Juàrez è una città in guerra, anche senza le cannonate, perché l’hanno scelta per la guerra i lord del narcotraffico; e quella è gente che non gliene fa nulla di ammazzare a casaccio, tirando nel mucchio, peggio per chi ci si trova dentro. E’ la città più violenta del mondo, e comunque i 18mila morti nel Messico dal 2003 sono un conto che solo l’Iraq o l’Afghanistan possono raccontare. Negli anni ”80, la cocaina che andava negli Usa (e gli americani sono il mercato più affollato per la droga, ne consumano il 55% di tutto il mondo) viaggiava quasi soltanto dal Caribe verso la Florida; nei ”90, la quota del Caribe era calata al 50%, mentre il resto veniva per via Centroamerica-Messico; oggi, Ciudad Juàrez è la strada pressoché esclusiva della droga che viaggia a Nord (c’è anche Tijuana, ma Juàrez offre infrastrutture di trasporto assai più allettanti). I «cartelli» colombiani - in alleanza con la ”ndrangheta calabrese - badano ormai soltanto al traffico europeo; in una paradossale divisione del mercato internazionale l’America se la sono conquistata i «cartelli» messicani, e se la sono conquistata con quei 18 mila morti senza storia.
Ora che Ciudad Juàrez è il nuovo centro dell’universo, i miliardi di dollari che qui s’infilano nei forzieri delle banche messicane e americane fanno troppa gola al mondo della mala. E si è scatenata la guerra dei «cartelli» per conquistarsi il controllo totale del territorio, ammazzamenti, stupri, sequestri, terra bruciata dovunque. A Povenir, piccola cittadina ormai quasi svuotata dal terrore, lungo la strada che va parallela al muro di rete metallica che gli Usa hanno tirato su alla frontiera per frenare il passaggio dei clandestini, in quella piccola piazza di terra, vuote le scuole, chiusi i negozietti polverosi, nessuno nelle strade mute, i «narcos» hanno appeso un pezzo di cartone con le lettere scritte da una penna biro: due mesi di tempo, e poi chi non se n’è andato finirà sottoterra.. Porvenir era territorio del «cartello» di Juàrez (qui lo chiamano la Linea), e però ora c’è la mafia concorrente, quella di Sinaloca, che non s’accontenta più di controllare l’area di Tijuana e vuole prendersi tutto. «Chapo» Guzmàn, il suo boss, sta arruolando truppe a man bassa. E sono soprattutto ragazzi, giovanissimi, senza quattrini né mestieri. Li chiamano «sicari», valgono 1000 pesos - meno di 80 dollari - per ogni morto che fanno.
Quando sono arrivato a Porvenir, l’altro pomeriggio, avevano appena ammazzato due disgraziati con la faccia nella terra. Una vecchia donna , gli occhi sbarrati, raccontava: «Vergine mia. Li ho proprio visti. Hanno aperto lo sportello, sono scesi dall’auto, e gli hanno sparato alla testa, a quelli lì. Poi hanno ripreso l’auto e se ne sono tornati da dove venivano. Mi son passati davanti, e ridevano. Vergine mia, erano due ragazzi che ancora la barba non gli è spuntata». Siamo andati via da Porvenir, con Mike e la sua Mercury asmatica, che i morti erano ancora per terra.
(3-CONTINUA)