MARCO SODANO, La Stampa 29/3/2010, pagina 11, 29 marzo 2010
USA A CORTO DI CREDITO: DESERTA L’ASTA DEI BOND
Alla fine la crisi di liquidità, di moneta sonante, ha fatto il giro del mondo: è partita dagli Stati Uniti con l’esplosione della bolla dei mutui spazzatura, ha attraversato - e strapazzato - l’Europa, s’è fatta una capatina dalle parti di Dubai, ha mandato alle stelle il deficit giapponese ed è tornata in America, non a Wall Street ma a Washington. Perché la crisi è partita dalla Borsa ma rientra attraverso la porta delle finanze pubbliche.
Questa settimana le aste dei Treasure bond (i titoli di Stato a stelle e strisce) sono andate quasi deserte: il governo americano fatica a finanziarsi sul mercato, al quale ha chiesto 118 miliardi di dollari, dopo averlo inondato di denaro perché restasse in piedi. E ha bisogno di soldi per ripianare i debiti fatti per inondarlo. A triplicare il sapore di beffa c’è il fatto che alle aste della traballantissima Grecia si registra il tutto esaurito e si fa anzi la coda, con richieste che doppiano e triplicano l’offerta dei titoli: 5 miliardi in vendita, 16 miliardi degli investitori pronti sul tavolo. Il tutto prima che l’Europa raggiungesse l’accordo salva-Atene che ora, infatti, farà scendere i rendimenti come desiderava Papandreou. Alla faccia degli anatemi contro la finanza allargata, la scommessa più cercata resta quella più rischiosa, quella che paga di più.
Rendimenti troppo bassi
Comprare il debito Usa, a dire il vero, non paga granché in questo momento: il rendimento a 10 anni resta sotto il 4% (quello dei titoli greci viaggia intorno a quota 6,25), tutti i segnali dicono che salirà rapidamente: meglio aspettare. Salirà perché la riforma della sanità americana si accompagna a un picco della povertà e della disoccupazione, e quindi la spesa pubblica Usa per il welfare e il bisogno di denaro del Governo si impenneranno. Salirà perché fino ad ora è stata la Federal Reserve a garantire gli acquisti che hanno tenuto i rendimenti ai minimi storici (Bernanke ha comprato T bond per 1.700 miliardi di dollari), ma il programma sta per terminare. E salirà anche perché le ultime offerte sono state snobbate dal mercato: tocca offrire di più per piazzare le obbligazioni agli investitori.
«Si respira un’atmosfera negativa perché i tassi a lungo termine sono in aumento» ha spiegato l’amministratore delegato di Bnp Paribas Rick Klingman. La previsione è che si tornerà sopra il 4,50% nel secondo trimestre, ovvero entro giugno «anche perché in caso contrario nessuno comprerà più T bond», riassumono gli analisti. Gli Stati Uniti potranno finanziarsi solo pagando il debito più caro, e dal momendo che indebitarsi sarà indispensabile lo sarà anche pagare di più.
Se Pechino non compra più
Un altro aspetto della vicenda non è sfuggito al mercato: anche Pechino ha contribuito a mandare deserte le aste dell’ultima settimana. Il grande cliente questa volta non ha comperato. Probabilmente anche oltre la Grande Muraglia attendono rendimenti migliori, ma la politica cinese degli ultimi mesi lascia intravedere sullo sfondo le tensioni Pechino-Washington. Che i cinesi non comprino a rendimenti bassi può anche essere semplice buon senso, ma è un fatto che tra dicembre e gennaio si sono difatti di quasi 40 miliardi di dollari di titoli di Stato americani, accelerando l’impennata ventura dei rendimenti.
Il caso yuan
Forse un segnale, forse il desiderio di tornare ad acquistare quando i rendimenti torneranno a volgere verso l’alto. Nei forzieri cinesi ci sono riserve valutarie per 2.400 miliardi di dollari. Al 31 dicembre 2009, 894,8 miliardi di dollari erano ufficialmente congelati in titoli del Tesoro americano. Ma con gli acquisti fatti attraverso intermerdiari (soprattutto inglesi) si stima che la cifra sia molto più alta: si capisce che è interesse dei cinesi che la solidità economica degli Stati Uniti non sia scalfitta dal minimo dubbio.
Oggi la propensione più a vendere che a comperare potrebbe anche essere letta come un segnale politico dopo le polemiche Usa-Cina sulla politica monetaria. Dagli ambienti conservatori Usa arrivano pressioni perché Pechino rivaluti la sua moneta, dal governo cinese è arrivato un secco «non se ne parla». Yi Gang, il direttore dello State administration of foreign exchange (Safe), ha assicurato che la Cina non lascerà a spasso il dollaro né il debito americano. Legittimo chiedersi a quali condizioni lo farà.