Giancarlo De Cataldo, La Stampa 28/3/2010, pagina 1, 28 marzo 2010
QUEL DELITTO CHE NON SI FA DIMENTICARE
Perché certi delitti attraggono così tanto la nostra attenzione e altri ci lasciano indifferenti? Che cosa rende, ai nostri occhi, «diversi» Cogne, Perugia, Garlasco, le vicende della Banda della Magliana, il «mostro di Firenze» e via dicendo, mentre ci sfilano accanto, quotidianamente, tanti altri fatti e fattacci di sangue, a volte più impressionanti e persino più ricchi di spunti umani e narrativi, e noi non dedichiamo loro altro che l’occhiata distratta di una «breve» di cronaca locale?
E’ una domanda che mi sento rivolgere di continuo, nella mia duplice veste di scrittore e di «addetto ai lavori». Di solito, a scopo retorico, dal momento che quasi sempre l’interlocutore di turno ha già la sua risposta pronta, e cerca, dallo scrittore e dal giudice, piuttosto una conferma che uno stimolo, o un dubbio. Così, ci si riferisce naturalmente alla depravazione della natura umana, che alcuni delitti eclatanti fanno spiccare. O si lamenta una duplice morbosità, quella della folla che gode di certi spettacoli cruenti e quella dei cronisti che l’alimentano con un martellamento incessante di particolari, a volte così eccessivi da rasentare lo «splatter». Da qui le reiterate invocazioni al silenzio che sento pronunciare da più parti: quasi che il silenzio avesse il potere taumaturgico di fermare la mano degli assassini.
Pure, nei luoghi comuni, si sa, c’è a volte (non sempre, ma a volte) un fondo di verità. Morbosità e propaganda c’entrano, eccome, nel fascino sinistro che certi crimini evocano. Ma non vanno confuse cause ed effetti. La Storia ci insegna che la moderna cronaca nera e il romanzo poliziesco nascono in contemporanea, e in origine tendono a confondersi. Tutto risale alla metà dell’Ottocento. Fu allora che, come supplemento domenicale ai giornali più importanti, presero a circolare i feuilleton, cioè vaste narrazioni di stampo popolare incentrate su crudi fatti di sangue, delitti efferati e quant’altro potesse accostare alla carta stampata il popolo. Perché il giornale è rivolto alle élite, e il feuilleton alle masse. Masse che vanno accostate, appunto, laddove «accostare» è il primo passo per controllare, governare, manipolare. Col tempo, il feuilleton venne abbandonato: la «nera» diventò parte integrante del corpo del giornale, e i romanzi presero a circolare autonomamente. Ma il ghiaccio, se così si può dire, era rotto, e il crimine entrava prepotentemente nel nostro immaginario.
Tutto merito dei giornalisti, dunque? Sono loro, e magari mettiamoci pure gli scrittori, che «inventando» il caso lo rendono diverso da tutti gli altri e ci costringono a parteggiare? Difficile crederlo. A meno, appunto, di non confondere cause ed effetti. «Effetto» è quando si sfrutta per fini (talora turpi) un delitto clamoroso, «causa» la genesi del clamore. Per quanto si possano accusare cronisti (e anche scrittori) di gonfiare, eccedere, «montare» certi casi, i delitti destinati a sopravvivere nella storia e nella memoria sono tali perché comunque presentano un elemento differenziale che resiste all’usura del tempo e tende a radicarsi nella coscienza di una moltitudine di individui. L’uso strumentale della cronaca, in materia criminale, può sortire anche effetti determinanti, nell’immediato, ma risulta sempre e comunque transitorio.
In altri termini, il «fattaccio» che si vuole far diventare eclatante a tavolino muore presto. Per fare un esempio: ciclicamente, gli abili manipolatori che usano la paura come invasivo strumento di governo ci aggrediscono con una qualche emergenza criminale. Ci sono state, negli ultimi anni, tornate elettorali che si sono giocate - e vinte - sul tema della paura dell’altro e del diverso. A ondate, abbiamo visto le pagine dei nostri giornali inondate di «mostri»: mostri rapinatori di ville, mostri che guidano ubriachi, mostri a quattro zampe che mordono a morte. Mostri-virus che avrebbero dovuto decimarci e che si sono rivelati eccellenti procacciatori di profitti per le multinazionali farmaceutiche, e via dicendo. Ne sono derivate altrettante ondate di panico collettivo, e talora leggi tanto draconiane da apparire estranee alla nobile tradizione giuridica nazionale. Ma tutto è stato di breve durata. Gli effetti, purtroppo, restano, ma l’epica non c’è mai stata: chi si ricorda dei cani-killer, delle bande di slavi, dell’aviaria? Ci si ricorda, invece, e ci si ricorderà molto a lungo, forse per sempre, di Cogne, di Perugia, di Garlasco, di via Poma, e persino dell’affare Montesi e di Ghiani e Fenaroli.
Il fatto è che, a mio avviso, dietro il «Caso Emblematico» ci sono le domande-chiave che certi delitti suscitano (e altri non), e che entrano in risonanza con il nostro sentire più profondo, più legato alla natura umana. Un delitto come quello di Cogne diventa di eccezionale impatto mediatico perché la collettività è attraversata da due domande spontanee: può una madre uccidere il proprio figlio? E, ammesso che sia possibile, può dimenticare di averlo fatto, ovvero rimuovere il suo gesto? Analoghe domande si possono riscontrare in pressoché tutti gli altri delitti che assurgono, e a questo punto dobbiamo dire a buon diritto, agli onori della cronaca. Davanti ai fatti di Perugia ci si chiede: che vita vivono questi ragazzi di buona famiglia che mandiamo all’università pieni di speranze e ritroviamo tossicofili, schizzati, coinvolti in affari orgiastici? E Garlasco ci stimola un ulteriore interrogativo: possiamo credere che un ragazzo dalla faccia pulita scanni la fidanzatina senza apparente motivazione? E si tratta di domande così profonde, e così inquietanti, che spesso tendiamo a rifiutare la risposta che ci viene dalle aule di giustizia.
Una parte profonda di noi, di noi tutti, desidera che il «peggio» non sia provato: vogliamo che la madre sia innocente, e l’assassino un «altro», meglio se «diverso». E vogliamo che i nostri figli siano puliti, sani, generosi e gentili, immuni da orge e deviazioni, e che a fare irruzione nella loro tranquilla quiete sia, ancora una volta, un «altro», meglio se diverso. Con la morbosità si può anche scendere a patti. Magari con adeguate strategie riduzionistiche (per esempio, limitando gli aspetti cruenti delle descrizioni, astenendosi dallo speculare sulle vittime, contenendo l’imperante pornografia del dolore). La propaganda si può combattere con un’altrettanto intelligente opera di controinformazione. Ma i dèmoni del profondo, quelli, è maledettamente difficile, se non impossibile, esorcizzarli.