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 2010  marzo 28 Domenica calendario

Le morti di Cavour, Mazzini, Vittorio Emanuele II e Garibaldi

17 gennaio 1878
Nel nome dei Padri
«Giungeva il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto una pioggia di fiori, tra il silenzio di una immensa moltitudine addolorata, preceduto da una legione di generali e da una folla di ministri e di principi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di bandiere, dagli inviati di trecento città, da tutto ciò che rappresenta la potenza e la gloria d’un popolo, giungeva dinanzi al tempio augusto dove l’aspettava la tomba». Paragonata ad altre cronache dei funerali di Vittorio Emanuele II, morto di broncopolmonite a soli 58 anni, quella di De Amicis in Cuore brilla per asciuttezza. Aedi improvvisati sciolgono inni al «veltro dantesco» e «al più valoroso dei Maccabei». Però la commozione è sincera, come il silenzio della folla che accompagna la bara verso il Pantheon. Gli applausi al feretro non erano ancora stati inventati. Unici a fare stecca sul coro, i giornali austriaci propongono di incidere sulla tomba il seguente epitaffio: «Qui giace un Re cui tutto tornò vantaggioso, anche le disfatte». Di preti in corteo se ne vedono solo due: il cappellano di Corte e un suo collega che davanti al Pantheon gli grida: venduto.
Vittorio Emanuele è il terzo campione del Risorgimento a congedarsi dai contemporanei per entrare nella storia e negli stradari delle città. Il primo era stato Cavour, stroncato dalla malaria nel giugno 1861, ad Italia appena fatta e ad appena 51 anni. Torino aveva chiuso per lutto, ma il resto del Paese non se n’era quasi accorto: lo considerava, non del tutto a torto, uno straniero. Dopo il miglior cervello, la miglior coscienza: Pippo Mazzini, spentosi a Pisa il 10 marzo 1872. «E l’Italia che ho sognato? dunque una parodia?» aveva scritto quel grafomane in una delle ultime lettere. Di sicuro era e rimane una nazione melodrammatica, che ha sempre considerato con fastidio le personalità rigorose. Infatti ai suoi funerali non c’era nessuno. Non i potenti, che lo volevano in galera. E nemmeno il popolo, che non aveva gli strumenti per capirlo, a cominciare dall’alfabeto. L’ultimo padre della Patria a lasciarla orfana sarà il più popolare: Garibaldi, morto a Caprera nel giugno 1882, quattro anni e mezzo dopo il suo Re. Obbediti da tanti in vita, entrambi vengono disobbediti al momento della morte. Vittorio voleva essere sepolto a Superga come gli avi, invece finisce al Pantheon. E invano il mangiapreti Garibaldi lascerà disposizioni per la propria cremazione. Lo imbalsameranno «per non offendere i sentimenti religiosi del popolo». Si scomoderanno i paragoni con Cesare e la retorica sommergerà il dolore. Ma dolore ve ne sarà, e autentico. Perché malgrado i suoi difetti, o proprio in virtù di essi, Garibaldi è l’unico protagonista del Risorgimento ad avergli saputo dare una dimensione epica.