Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  marzo 28 Domenica calendario

IL LATO INFANTILE DEL CAPITALISMO BAMBOCCIONE - I

giurati dell’Academy Award hanno un bel premiare film "impegnati" alla The Hurt Locker: i grandi incassi, anche quest’anno, li stanno facendo super-fiabe in 3D come
Avatar e Alice nel paese delle meraviglie.
Dai primi anni 2000, il box office americano è dominato da fantasy per adolescenti, adattamenti di fumetti e cartoni animati. Ma il fenomeno non riguarda solo il cinema. Da un lato, i giovani sono un segmento specifico di culture, stili e consumi, ma dall’altro costituiscono, secondo alcuni osservatori, il prototipo del consumatore ideale.
In Consumati (Einaudi), ad esempio, Benjamin Barber, l’autore di Guerra santa contro McWorld, sostiene che una infantilizzazione di massa domina l’attuale fase del capitalismo. Barber descrive questo « ethos infantilista» come un capovolgimento dell’etica protestante weberiana: «Nel nuovo vangelo del consumo la spesa è sacra, come il risparmio era sacro nel vangelo tradizionale dell’investimento». E lo shopper ideale ha i tratti psicologici ed emotivi del pre-adolescente.
La tesi è forse troppo apodittica. Ma l’immagine centrale del consumatorebambino è suggestiva ed efficace. Anche perché si presenta insieme al suo doppio inquietante: «Perché il capitalismo consumistico possa prevalere, bisogna far sì che i bambini diventino consumatori o che i consumatori diventino bambini». E infatti la spesa in pubblicità rivolta ai bambini, ricorda Barber, «è aumentata dai cento milioni di dollari scarsi del 1990 a oltre due miliardi nel 2000».
Eppure fino a oggi, erano stati i giovani (i cosiddetti "teenager"), non i bambini, a venire evocati come laboratorio e come avanguardia dei consumi. Nel secolo scorso, sono storicamente loro il motore del cambiamento negli stili, nelle mode. La stessa parola "teenager" è stata introdotta come termine specifico del marketing, alla fine della II guerra mondiale. Lo ricorda un altro recentissimo volume, L’invenzione dei giovani del giornalista Jon Savage (Feltrinelli), che aiuta a mettere in prospettiva le constatazioni di Barber in un’indagine storica sulla prima metà del XX secolo.
Il primo a distinguere scientificamente un nuovo "spazio" psicologico e biologico tra la pubertà e l’età adulta è, racconta Savage, lo psicologo G. Stanley Hall, autore del ponderoso studio
Adolescence (1904). E a cercare di gestire questo nuovo soggetto ancora sfuggente sono all’inizio soprattutto le istituzioni. I giovani appaiono dapprima un problema sociale, anzi spesso criminale: il Juvenile Court Act dell’Illinois, che stabilisce una giustizia minorile separata, è del 1899. Nel frattempo filantropi e moralizzatori, organizzazioni giovanili paramilitari, religiose o laiche, si affrettano a educare, organizzare, irregimentare (nascono allora in Inghilterra i boy-scout, basati su principi cristiani e vagamente nazionalisti). E dagli anni Venti la mobilitazione dei cittadini nei regimi totalitari punterà all’infanzia e all’adolescenza in maniera mai vista prima, dai balilla alla Hitlerjugend.
I "giovani" hanno cominciato ad assumere una fisionomia propria, distinta dall’infanzia e dall’età adulta: aumenta la scolarità, e cominciano ad apparire consumi distinguibili. Il cinema e il jazz, in questo senso, sono fondamentali per «l’invenzione dei giovani», e per la loro auto-percezione. E insieme ai tentativi di irregimentare la gioventù (e spesso proprio a causa di questi tentativi) Barber cita le più variopinte subculture, quasi sempre minoritarie, spesso tragiche o appassionanti. Dagli hooligan inglesi agli apache francesi di inizio secolo (alcuni già con capigliature proto-punk), fino a quel movimento quasi commovente che sono gli "swing kids" tedeschi sotto il nazismo, con nomi pittoreschi come Pirati Edelweiss, o i loro equivalenti sotto Vichy, gli zazou,
che esprimevano la loro avversione al regime in maniera anarcoide e a-politica, con la passione per il jazz e il cinema americano, i capelli più lunghi del lecito, un gusto paradossale per le aberrazioni di cattivo gusto del regime. E con gesti provocatori come andare in giro, per solidarietà agli ebrei, con una stella gialla cucita sul petto (e al centro la scritta "swing").
Dal dopoguerra, sarà soprattutto il mercato a nutrire e forgiare i giovani, in maniera eclatante dagli anni Cinquanta- Sessanta. Anche in Italia, è quella «la prima generazione» (come l’ha definita la sociologa Simonetta Piccone Stella) di giovani in senso proprio, costitutivamente diversa dai padri e immersa in una diversa modernità anche tramite film, canzoni, libri e periodici tutti per loro.
Ma proprio qui, ci sembra, emerge la grande differenza tra giovanilismo e infantilismo. Infatti le culture giovanili sono state contemporaneamente forme di consumo e di critica, di marketing e di controcultura. Non così è se accettiamo la diagnosi di Barber sull’«infantilizzazione». Il concetto stesso di "gap generazionale", di conflitto tra generazioni, molla di modernizzazione delle società, perde di significato se il modello del consumatore diventa il pre-adolescente. Le differenze tra generazioni sfumano, l’autonomia delle culture giovanili non è più il terreno della sperimentazione per nuove soggettività e nuovi linguaggi, dentro e fuori i media. I bambini vengono spinti più rapidamente possibili a diventare piccoli consumatori, e una volta raggiunta questa pubertà precoce, possono rimanerci idealmente sine die. «Bamboccioni», però cullati non dalla famiglia o dalla scuola, ma da forme ludiche e spettacolari sempre più complesse e integrate.