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 2010  marzo 29 Lunedì calendario

PALESTINESI NEI CANTIERI DEL «NEMICO». «ORA LAVORIAMO ANCHE PER I COLONI»

Lo scheletro di cemento del palazzo di re Hussein sta sulla collina di fronte, la guerra persa dai giordani ha paralizzato la costruzione oltre quarant’anni fa. Le ruspe sono ferme anche nella valle sotto Ramat Shlomo, congelate dalla guerra fredda di queste settimane tra gli Stati Uniti e Israele. Il piano per i 1.600 appartamenti è stato annunciato come uno schizzo di cemento sulla giacca del vicepresidente Joe Biden, in visita a Gerusalemme, e il premier Benjamin Netanyahu ha dovuto bloccare per ora i lavori.
I muratori continuano invece a mischiare la malta per tirare su le ville private, palazzi che hanno ottenuto i permessi prima della crisi diplomatica con gli americani e che non attraggono l’attenzione internazionale. Così Ramat Shlomo si espande un lotto alla volta. La lingua dei cantieri è l’arabo, gli operai sono di Gerusalemme Est. Lo stop che Washington vuole imporre (niente nuovi edifici nella parte orientale) per loro significherebbe una vittoria politica e la perdita dello stipendio. «I committenti sono quasi tutti israeliani, i palestinesi rappresentato per me solo l’1 per cento. Noi non riusciamo a ottenere i documenti per costruire sulla nostra terra, mentre loro sì», commenta Assad. L’impresa è sua e qua sta preparando una casa di trecento metri quadri. «Sono quelli dichiarati ufficialmente, in realtà ne facciamo saltar fuori cinquecento. Gli ispettori del comune non vengono, preferiscono lasciar correre».
A Ramat Shlomo abitano in diciottomila, ebrei ultraortodossi attratti anche dai costi molto più bassi. Le famiglie si preparano al Seder, la cena pasquale di questa sera, con l’aspirapolvere gli uomini ripuliscono le briciole di pane dalle auto. Dall’altro lato della strada, i carpentieri arabi si affrettano, sono le ultime ore di lavoro prima della lunga pausa festiva. «Devo innalzare questa recinzione per evitare che i bambini cadano nelle fondamenta » , spiega Mohammed, fabbro di 35 anni, che arriva dal quartiere di Al-Ram, nella parte nord-orientale. «Ho sempre lavorato per gli israeliani in queste zone: a Pisgat Zeev, Neve Yaakov. Che ci posso fare, ho bisogno dei soldi. Mi sono rifiutato solo di partecipare alla costruzione del muro». Mohammed guadagna 800-1000 dollari al mese. «Non mi sento di criticare chi accetta impieghi perfino nelle colonie in Cisgiordania. L’Autorità palestinese non è in grado di offrire alternative, di combattere la disoccupazione».
Il governo di Ramallah ha allestito «il fondo per la dignità», 2 milioni di dollari da usare per convincere i contadini o i muratori a non alimentare il mercato attorno agli insediamenti: ogni anno – secondo i dati raccolti dai palestinesi – prodotti per il valore di 500 milioni di dollari raggiungono i territori dalle colonie. Il ministro Hassan Abu Lidbe sta preparando un disegno di legge per rendere illecito qualunque rapporto economico tra i palestinesi e gli israeliani che hanno scelto di vivere in Cisgiordania.
Dal piccolo villaggio di Taamera, almeno 200 arabi vanno a lavorare in cima alla collina, nell’insediamento ebraico di Tikua. Non hanno il permesso per entrare a Gerusalemme e qui prendono il 50 per cento in meno. Ayman (il figlio) arriva a mettere insieme 120 shekel al giorno, poco più di venti euro. Mohammad (il padre) guadagna quattro volte tanto come piastrellista in città, nella parte Est. «Il blocco alle nuove costruzioni è un bene per il popolo palestinese ma non è bene per me – dice l’anziano ”. Sarei felice comunque. Non è sufficiente congelare gli insediamenti, l’Autorità palestinese deve aprire nuove fabbriche. Anche se ci spero poco».
I lavoratori illegali come Jabber non si arrischiano ad accettare clienti israeliani, è già stato arrestato ed espulso troppe volte. Jabber e il suo clan (tutti parenti, arrivano dalle colline a sud di Hebron) costruiscono per gli arabi nei quartieri di Gerusalemme. Palazzi quasi sempre senza permesso, piani impilati uno sopra l’altro per dare spazio alle famiglie che si ingrandiscono. «Dormiamo in cantiere, senza uscire mai. Una volta alla settimana torniamo a casa. Chiediamo 200 shekel (quasi 40 euro) al giorno per ognuno di noi». Il capomastro è lui e mette insieme la squadra al villaggio prima di ogni progetto.
Per venire a Gerusalemme, deve superare la barriera di sicurezza che circonda la Cisgiordania. Voluta da Ariel Sharon per fermare gli attentatori suicidi, viene aggirata ogni giorno da clandestini come lui. «Abbiamo trovato un tunnel, è il tubo di una fognatura. rischioso, ma non abbiamo altra scelta. Entriamo disoccupati e ci ritroviamo dall’altra parte con un lavoro».
Davide Frattini