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 2010  marzo 28 Domenica calendario

LA SVOLTA DI TRIESTE

Il cambio della guardia alla presidenza delle Generali, i chiarimenti al vertice di Unicredit e la stessa composizione delle liste di Intesa Sanpaolo stanno avvenendo sotto gli occhi fin troppo attenti della politica. Non accadeva, in forme così pervasive, da gran tempo.
Le dichiarazioni dei sindaci di Torino (Pd) e di Verona (Lega), dei ministri dell’Economia (Pdl) e dell’Agricoltura (Lega) spaziano dalla composizione della gerenza di Intesa (dovrebbe essere meno milanese e più piemontese) al modello organizzativo di Unicredit (dovrebbe essere federale e non accentrato). E i più discreti interventi sul fronte Mediobanca-Generali, riferiti in privato da tutti i soci eccellenti e negati in pubblico dagli esponenti del governo, avrebbero lo scopo di arruolare il Leone nelle cosiddette operazioni di sistema. Con il plauso della Confindustria. Una tale, insistente pressione avrebbe scandalizzato l’Italia delle privatizzazioni che si apriva alla finanza internazionale e cercava di liberalizzare l’economia. Strada facendo, quell’Italia ha avuto uno sbandamento con il tentativo tremontian-leghista del 2003 di soggiogare agli enti locali le fondazioni e di affidare la gestione delle loro partecipazioni bancarie a soggetti terzi, certificati dal governo. Ma quello sbandamento rientrò nell’intelligente collaborazione tra Tesoro e fondazioni in seno alla Cassa depositi e prestiti. La consacrazione del mercato venne infine celebrata nella battaglia contro il nazionalismo della Banca d’Italia di Antonio Fazio. Oggi, mentre si riducono al lumicino gli incentivi alle imprese, la politica in banca o nelle assicurazioni non fa scandalo. Ma non c’è da stupirsene. Nel mondo, specialmente nei paesi anglosassoni che l’Italia degli anni Novanta cercava di imitare, i governi hanno salvato l’industria finanziaria. La mano pubblica ha acquisito una nuova legittimità, anzitutto perché ha pagato e poi perché Wall Street ha perso la faccia. L’onda internazionale ha esaltato limiti, ingenuità, errori delle privatizzazioni italiane, e l’avida estrazione di ricchezza dai colossi ex pubblici effettuata dalla speculazione. Ne scriviamo da anni: da ben prima che fosse di moda farlo. Il fallimento dei regolatori - la Grande Crisi è anche la crisi delle banche centrali e delle authority che avevano deregolato - ha messo in mora il concetto stesso di regola. Questi fenomeni accreditano l’intervento diretto della politica anche al di qua delle Alpi. Ma rischiano di oscurare la realtà e di preparare un pericoloso ritorno agli anni Ottanta. La barca, allora, era spinta dall’espansione incontrollata della spesa pubblica, dalle svalutazioni della lira e dai prestiti allegri delle banche infeudate dai partiti. Ne conseguì non solo un debito pubblico insostenibile da domare, ma anche un cumulo di sofferenze bancarie che venne smaltito in 15 anni, e che costò molto di più dei Tremonti bond. Far sentire sulle banche la pressione delle famiglie e delle imprese, specialmente delle piccole, è sacrosanto. E il Corriere l’ha fatto con le inchieste di Dario Di Vico sugli «invisibili». I partiti fanno bene a porre il problema e a procedere con azioni di governo che aiutino il flusso del credito senza prevaricare l’analisi del cliente. Ma stabilire se Unicredit debba avere un country manager per l’Italia o no, se debbano o meno conservarsi centinaia di consigli periferici e relativi gettoni, se il potere di Alessandro Profumo sia o non sia troppo, tutto questo va lasciato al management e agli azionisti. Magari senza infondate polemiche retrospettive: le casse di risparmio di Verona, Torino e Treviso vennero consegnate al Credit non per fare un regalo, ma perché andando in Borsa da sole avrebbero spuntato la metà. Gli azionisti più importanti delle banche, cui spetta lo scrutinio dei manager, sono le fondazioni, per quanto le loro quote siano ormai piccole rispetto al mare magno dei risparmiatori. Smentendo i critici, queste fondazioni hanno favorito la crescita delle banche nella stabilità, secondo una pluralità di modelli. Lo hanno fatto perché sono riuscite a essere corpi intermedi, con una certa autonomia professionale. Certo, alla politica hanno concesso, ma in modica quantità. Se si va oltre, si torna indietro. E la storia si ripete sempre in forma di farsa. Negli anni Ottanta, la politica, articolata in partiti di massa, democratici e corrotti, aveva le Partecipazioni statali, figlie dei salvataggi degli anni Trenta, di intuizioni come l’Eni e di scelleratezze come l’Egam. E poi abbiamo visto le distorsioni degli epigoni. Oggi, la politica, articolata in partiti leaderistici con varianti proprietarie, corrotti anch’essi, cerca di reinserirsi nell’economia per aspirarne potere e orchestrare «operazioni di sistema»: quelle che non danno profitti trasparenti e che si fanno, rigorosamente con i soldi degli altri, per evitare di tirar fuori le magagne della politica o dell’establishment. Ma un grande azionista di Generali, che ci ha messo soldi suoi e ben vede le novità, giura che non ci saranno altre Telecom.
Massimo Mucchetti