ETTORE BOFFANO, la Repubblica 27/3/2010, 27 marzo 2010
IL BOOM DEI PARRUCCHIERI CINESI
Chissà se il ministro Giulio Tremonti l´ha già individuato come uno dei tanti pericoli orientali per la nostra economia. Ma il fenomeno è comunque concreto: la Cina è vicina, per le teste e tra i capelli delle italiane. E a tariffe davvero da grande depressione.
Il minimo per shampoo e piega è di 6 euro e, con l´aggiunta di altri 2, ecco anche il taglio. Strano ma vero, a guardare i prezzi dei parrucchieri italiani con un range che va dai 10-15 euro della piccola bottega di periferia o di paese (60mila in Italia sulle 100mila imprese ufficiali) sino ai 150-200 dell´acconciatore di grido e con una spesa media di 65. Dunque, farsi pettinare nei negozi dei cinesi conviene e moltissimo. Così la moda si diffonde con un tam-tam incessante che coinvolge ormai anche le signore-bene, mentre le vetrine coperte da scritte in ideogrammi e con le traduzioni in italiano proliferano. Per ora soprattutto al Nord e nelle grandi città, ma portandosi dietro problemi, polemiche e cambiamenti di stile di vita: una mutazione soltanto agli inizi e che prospera sul passaparola.
Le domande e le accuse fioccano: qual è, insomma, il grande inganno che si nasconderebbe dietro quelle tariffe stracciate? Sfruttamento della manodopera? Condizioni igieniche e qualità dei prodotti cosmetici fuorilegge? Bisogna fidarsi? Basta inserire in Google l´espressione "parrucchieri cinesi" ed ecco spuntare fuori decine e decine di blog e forum "al femminile" dove il dibattito ferve. Tra gli artigiani italiani, invece, le parole d´ordine sono "concorrenza sleale", lavoratori sottopagati, orari di apertura che sfiorano le 24 ore su 24 e che consentono anche 150-180 tagli al giorno, quantità da catena di montaggio che divora qualsiasi qualità. Ogni tanto, infine, anche qualche notizia di cronaca sui controlli dei Nas. A Milano, nella zona di Quarto Oggiaro, nel luglio scorso i carabinieri hanno trovato le sorprese più negative: tinture alla tempera e 11 ragazzi pagati 800 euro al mese, il minimo per la categoria.
Ma ciò che impressiona sono i dati e anche le code all´ingresso dei negozi. Ancora a Milano, ad esempio, i cinesi sono già un centinaio su 213 parrucchieri ed estetisti stranieri che costituiscono il 10% delle 2161 imprese del settore. E sono proprio i "coiffeur dagli occhi mandorla", come li chiamano nei forum on-line, ad aver alimentato tra il 2008 e il 2009 la metà delle nuove aperture in città. Il segreto? Rapidità (20 minuti di seduta contro gli almeno 40 minuti "italiani", niente chiacchiere e un vocabolario minimale: «liscio, mosso, riga, lacca»), ambienti senza pretese (vecchie poltrone Anni 60 o seggiole e specchiere Ikea) e un trattamento "no frills", senza fronzoli. Niente lozioni e balsami e, meno che mai, l´offerta di un caffè. E poi "pacchetti convenienza" annunciati dalle scritte realizzate con i caratteri trasferibili. Un patto chiaro, anzi chiarissimo: ti assicuriamo una pettinatura decente, in fretta e spendendo poco.
In un crescendo che si accompagna agli allarmi della categoria italiana. La protesta comincia a dilagare, tra Torino, Milano e Genova e poi nel Nord-Est e anche a Reggio Emilia, Bologna e Modena. Con assessori comunali e regionali di ogni colore politico che annunciano interventi sugli orari d´apertura e sulla verifica dei diplomi da acconciatore. L´ultima polemica è scattata a Padova dove i cinesi si sono "impadroniti" persino dello storico e centrale negozio "Gasperini" che sopravviveva da 50 anni. La risposta è stata una dimostrazione "italiana" di pettinature nel "Caffè Pedrocchi". Intanto, però, i cartelli con l´avvertenza "usiamo solo prodotti italiani" fanno capolino ormai anche nelle botteghe della "chinatown" milanese di via Paolo Sarpi e molte clienti hanno incominciato a portarsi da casa i flaconi delle tinte: il costo finale resta sempre il più conveniente.
La rivista torinese "Estetica", leader da anni nel settore, ha dedicato a questo boom un lungo servizio di quattro pagine, intitolato: «Cina, concorrenza sleale» e ha provato a fare i conti in tasca ai "nuovi artigiani" della messa in piega: base di partenza l´oretta necessaria per una prestazione di buon livello. Se si considerano 100 tagli al giorno a una media di 8 euro l´uno, il guadagno è di 800 euro. Però, per fare 100 tagli, servono almeno 10 dipendenti il cui costo giornaliero è di almeno 600 euro. I duecento che rimangono vanno distribuiti per le altre spese di gestione. In teoria, nessun parrucchiere cinese o italiano potrebbe sopravvivere. «Vuol dire che c´è qualcosa che non funziona - commenta Savino Moscia, presidente nazionale di Cna Benessere - Bisognerà controllare il rispetto delle leggi». Anche sui salari.
Ma intanto, gli effetti calmieranti sul mercato si sono già prodotti. Davanti al "cinese" più frequentato di Torino, in via Vanchiglia a poche centinaia di metri dal Po, una signora che sta uscendo spiega: «Il mio parrucchiere italiano ha abbassato anche lui i prezzi. Ma io, quando sono di corsa, continuo a venire qui». la globalizzazione dello shampoo che presto andrà oltre i possibili dubbi sulle norme igieniche e sulle effettive retribuzioni del personale, magari costringendo anche l´antico abusivismo italiano a redimersi: «Rispetto al proliferare di saloni cinesi - è l´opinione di Lino Fabbian, presidente di Confartigianato Acconciatori - il fenomeno dell´abusivismo è più pericoloso. I saloni cinesi, se condotti legalmente e in modo cristallino, producono Pil e movimentano denaro. Sarà difficile opporsi».