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 2010  marzo 27 Sabato calendario

LA MOSSA DEL GATTOPARDO

In principio fu il Leone alato. D´ora in poi, a Trieste, sarà il Gattopardo. Con un´operazione di pura mimesi trasformistica, il capitalismo «a suffragio ristretto» ha compiuto il suo ultimo capolavoro. A Cesare Geronzi è riuscito il «grande arrocco», anche se un po´ meno «perfetto» di come lo avrebbe voluto. Assediato dalla magistratura, che sul crac Eurolat-Parmalat lo ha appena prosciolto per il reato di estorsione ma continua a braccarlo per quello di bancarotta, l´erede di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi lascia Mediobanca, e diventa presidente delle Generali. Ancora una volta, nell´immarcescibile Salotto Buono della finanza italiana bisogna che tutto cambi, perché nulla cambi. Ora si discuterà a lungo sulla portata di questa vittoria, nella complessa partita a scacchi giocata tra i pianeti della Galassia del Nord. Probabilmente Geronzi non ha ottenuto tutto quello che sperava. Il banchiere di Marino trasloca a Trieste per assumere una presidenza sostanzialmente onoraria, cioè non operativa: guiderà la gallina dalle uova d´oro del mercato assicurativo e immobiliare del Paese senza avere deleghe, che invece saranno redistribuite tra i due amministratori delegati. In Mediobanca, che delle Generali è il «controllore», non potrà contare sul «clone» che aveva indicato come suo successore, e cioè Marco Tronchetti Provera. E nemmeno, in subordine, sul «sicario» che aveva assoldato nella guerra sotterranea in Unicredit contro Alessandro Profumo, cioè Fabrizio Palenzona. Seduto sulla poltrona di Piazzetta Cuccia si ritroverà invece Renato Pagliaro, che insieme ad Alberto Nagel era stato impropriamente considerato uno dei suoi due «alani» (secondo l´antica definizione che negli anni ´70 imperò all´Iri di Franco Petrilli). Dunque un manager che, come dicono adesso a Piazzetta Cuccia, rappresenta «la storia stessa della banca», e che per questo ne preserverà l´identità e l´autonomia, senza farsi manipolare da nessun «controllato». Non solo: in consiglio di amministrazione non potrà contare nemmeno su una sua maggioranza. Insomma Geronzi sbarca a Trieste tra due ali di folla e con tutti gli onori. Ma sulla carta, e almeno all´inizio, non sarà lui a comandare.
Nonostante questi limiti di partenza, il suo traguardo lo ha tagliato comunque: passa da Mediobanca a Generali (come «Repubblica» aveva anticipato il primo febbraio scorso, alla faccia delle solenni ma bugiarde smentite delle settimane successive). E allora bisogna chiedersi: chi e perché ha voluto questo ribaltone? La necessità di Geronzi di proteggersi dai rischi giudiziari, sfuggendo ad una normativa bancaria molto severa sui criteri di onorabilità e riparandosi dietro una legislazione assicurativa assai più lasca, spiega molto. Ma non tutto. Il banchiere laziale, alle Generali, porta con sé molto più che un´esigenza personale. Porta un´urgenza economica e, insieme, una cogenza politica. In questi mesi non ha solo tessuto rapporti con il gotha della finanza milanese, da Giovanni Bazoli a Giuseppe Guzzetti. In questi anni ha saldato soprattutto un asse di ferro prima con Gianni Letta, ora anche con Giulio Tremonti. Per questo l´obiettivo strategico del suo «arrocco» era duplice.
Il primo obiettivo: blindare gli assetti della finanza italiana. Mediobanca, con una quota del 16,2%, è il primo azionista di Generali. Con un 14,3% di capitale è anche primo azionista nel patto di sindacato Rcs (con la Fiat, la Pirelli, le stesse Generali, Intesa San Paolo, Fonsai, Italmobiliare e Dorint) e insieme a Generali controlla Telecom, con un 10,6% detenuto in Telco. A sua volta Generali, con un 2% controllato direttamente e un altro 2% attraverso le partecipate, è uno dei soci forti del patto di sindacato Mediobanca. secondo azionista di Banca Intesa con oltre il 5%, dopo la Compagnia di San Paolo e insieme ai francesi di Credit Agricole, e partecipa al patto di sindacato di Pirelli con il 4,4%, insieme alla stessa Mediobanca, alla stessa Intesa San Paolo e alla Fonsai di Ligresti. Un groviglio spaventoso, dove i controllati controllano i controllanti, e ovviamente viceversa. Conservarlo in mani sicure è garanzia di continuità per il potere economico.
Il secondo obiettivo: trasformare la «magnifica preda» di Trieste, che ha in cassaforte oltre 400 miliardi di massa amministrata per conto degli assicurati, nel braccio armato che serve al governo di Roma per supportare le operazioni più sensibili dei sedicenti «campioni nazionali»: affari strategici come Alitalia o Telecom, maxi-investimenti come l´Expo o il Ponte sullo Stretto, consolidamenti bancari come quelli in cui sono impegnate le fondazioni «padane». Lasciare queste leve in mani fidate è garanzia di stabilità per il potere politico. A dispetto delle bugie del premier, Geronzi è uno snodo essenziale nel sistema berlusconiano. Non si capirebbe, altrimenti, né lo slittamento a giugno del decreto che equipara i requisiti di onorabilità tra banche e assicurazioni, deciso pochi giorni fa da Scajola. Né l´implicita benedizione che alle scelte fatte per Generali e Mediobanca ha voluto dare proprio ieri lo stesso Tremonti, dicendo «se sarà amministrata ancora così sarà un bene per il Paese».
Ora, viste le decisioni assunte ieri dal comitato nomine di Mediobanca, può darsi che Geronzi avrà parecchie difficoltà in più nel perseguire questi suoi obiettivi. Sicuramente dovrà rinunciare, almeno per ora, al progetto di fusione Mediobanca-Generali, che resta la sua vera ossessione. Ma due cose sono certe. La prima riguarda la persona: l´uomo è abituato alle battaglie nelle quali parte sconfitto, ma poi sfianca l´avversario fino a metterlo alle corde (come sanno bene Matteo Arpe e lo stesso Profumo, «scavalcato» sulla gestione delle partecipazioni nella fusione Unicredit-Capitalia). La seconda riguarda il sistema: nonostante il sotterraneo gioco di interdizione cui abbiamo assistito in questa partita, alla fine la soluzione gattopardesca e continuista sta bene a tutti. Il compromesso barocco e passatista accontenta tutti.
 la riflessione più amara: questo è il capitalismo italiano. Un mercato asfittico dei soliti noti, polveroso e immobile come un piccolo mondo antico, dove nell´intreccio micidiale tra affari e politica si perpetuano le relazioni pericolose e i conflitti di interesse. Una «foresta pietrificata», dove nulla si crea e nulla si distrugge. Qui il potere non si blinda. Fa di più: si cristallizza.