Martina Zambon, Corriere della Sera 27/03/2010, 27 marzo 2010
FELICE CARENA. IL PITTORE IN «ESILIO»
Felice Carena era una star. Lo è stato, nel bene e nel male, per tutta la prima metà del ”900. Prima che la damnatio memoriae si abbattesse sull’artista piemontese che ha vissuto, come in un Grand Tour ottocentesco prima nella natia Torino, poi a Roma, a Firenze e, infine, a Venezia, la patria del colore a cui, forse, era destino approdasse. Poi, di lui, del suo realismo cocciutamente «puro», s’è quasi persa ogni traccia. A togliere la polvere che ne aveva appannato la fama ci aveva provato nel ”96 proprio Torino, ma ora è Venezia, con la «piccola antologica e grande mostra», per dirla con Virginia Baradel (curatrice della mostra affiancata da un comitato scientifico composto da Luigi Cavallo, Elena Pontiggia, Nico Stringa e la supervisione di Stefano Cecchetto), allestita da oggi a Palazzo Franchetti, sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, che si tenta la definitiva riscoperta.
Come mai tanti pittori del ”900 sono stati, via via, riscoperti e rilanciati? Da de Chirico a Sironi, passando per Casorati, Carrà e Campigli, per tutti si è arrivati a una corposa rivalutazione critica. Perché per Carena no? A scorrere la sua biografia vien da chiedersi se il grande successo goduto in vita, soprattutto in epoca fascista, non abbia contribuito all’oblio. Lo chiamavano «il Principe delle Biennali», cui partecipava da «big fuori concorso», per così dire. stato Accademico d’Italia, persino presidente del Sindacato artisti fascisti. Eppure, Sironi non era forse in prima linea ben più di Carena sul fronte politico? Allora l’unica spiegazione è artistica: la sua pittura è sempre stata scomoda e non allineata. Non cedette al realismo magico, non puntò sulla metafisica, non fu mai «novecentista d’ordinanza». Il suo era un realismo tout court in cui gli influssi delle grandi correnti novecentesche si intessevano sotto traccia senza scalfirne la scelta di fondo. C’è stato un momento storico in cui, seguendo soltanto il fil rouge dell’arte, un realismo così scevro da declinazioni già démodé, avrebbe potuto essere preso a modello dai giovani realisti. Si era, però, nel secondo dopoguerra e la collocazione a sinistra delle nuove leve impedì un dialogo con l’opera del «fascista» Carena. Lo scrive Raffaele De Grada: una serie di circostanze «l’hanno messo nell’ombra». Carena (Torino 1879 - Venezia 1966) solca l’età a cavallo di due secoli. Dopo la formazione torinese, si trasferisce a Roma, dal 1906 al 1912, dove frequenta il gruppo dei Pittori dell’agro-romano. Dai dipinti imperniati sul patetismo degli umili, negli anni Venti approda a Firenze dove diventa direttore dell’Accademia e conosce un successo scintillante. Nel 1945 l’«esilio», accolto, però, con entusiasmo nella Venezia dei suoi successi alla Biennale.
E lamostra veneziana parte proprio da qui. Si inizia sfatando il mito del «più grande pittore morente ancora in attività», come lo definivano le malelingue. Dalle tele in cui il cromatismo viscerale domina, emerge per la prima volta un’altra storia. «Gli anni veneziani – spiega Virginia Baradel’ sono considerati una sorta di lente per rileggerne la vicenda artistica. Il suo realismo ha sempre avuto una grande forza cromatica con una pennellata libera, rilevata, quasi in rilievo. Ma è con l’arrivo a Venezia che si libera dalla figura. Alla luce di questo epilogo si può rivedere in modo nuovo la sua vicenda precedente. Non è una grande
antologica, visto gran parte della produzione di Carena è dispersa. Possiamo definirla una piccola antologica ma una grande mostra». Non è un caso che si tenga in laguna, dove Carena, appunto, venne accolto come una star e dove si rinsaldò una stretta cerchia di amici, dal conte Cini a Gilberto Errera.
Ripercorrendo le novanta opere in mostra ci si stupisce: a Venezia Carena non si ripete, al contrario, si rinnova sperimentando. Dal ”46 al ”49, ad esempio, il suo marchio di fabbrica (una materia cromatica esuberante che sgorga dal tessuto figurativo, dai rapporti spaziali e dalla inconfondibile pennellata energica), si libera nel post impressionismo lagunarista. Carena entra, insomma, in una dimensione di rinnovamento e di modernità. A partire dagli Anni 50 segue due binari: un espressionismo sempre più tragico e drammatico, e le nature morte con uno sguardo rivolto a Giorgio Morandi che somigliano a una catarsi.
Martina Zambon