Fabrizio Caccia, Corriere della Sera 27/03/2010, 27 marzo 2010
PARLA IL CIGNO NERO DEL CASO MONTESI: LA SENTENZA VA RIVISTA
Il Cigno Nero accarezza uno ad uno i dieci gatti del suo giardino, all’ombra del palazzetto di famiglia, a Caponago, vicino Milano, tra le camelie e le rose che stanno per sbocciare. Anna Maria Augusta Moneta Caglio Bessier d’Istria, detta Marianna, nata il 25 luglio 1929, tira un lungo sospiro: «Sono passati molti anni dalla mia condanna - dice -. Ma se vicino alla morte chiedo giustizia è perché non voglio lasciare a mia figlia la macchia del disonore...».
Non ha perso lo smalto di un tempo, per fortuna. E’ ancora bella, allegra e maliziosa. Fu Camilla Cederna a ribattezzarla così, il Cigno Nero, per via di quel collo da mannequin, quando scoppiò lo scandalo e tutti i giornali parlavano di lei, delle sue giacche di lince sfoggiate all’Open Gate e nei locali alla moda della Roma notturna Anni 50. Una cosa è certa. Il suo nome è - e rimarrà - legato per sempre a quello di un’altra donna: Wilma Montesi, trovata morta annegata a pochi metri dalla riva, la mattina dell’11 aprile 1953 a Tor Vaianica. Aveva 21 anni. «Tra poco sarà l’anniversario, andrò a Roma a portarle un fiore sulla tomba», sussurra la signora Anna Maria.
Per il delitto Montesi, a Venezia, si aprì il «processo del secolo», era il 21 gennaio 1957. E lei ne fu la regina, più volte applaudita a scena aperta dal pubblico. Il Cigno Nero era la «supertestimone», la ragazza che con le sue rivelazioni, ingenue e fantasiose, puntava il dito su degli insospettabili: il marchese Ugo Montagna («con cui all’epoca ero fidanzata») e il musicista Piero Piccioni, figlio di Attilio, potente ministro degli Esteri democristiano, dimessosi per i venefici effetti di quel putiferio. Alla fine vennero tutti assolti. Lei, invece, anni dopo, condannata per calunnia. E’ questa, dunque, «la macchia del disonore» che la signora oggi vorrebbe togliersi di dosso. Perché c’è un fatto nuovo. Durante le feste di Natale, frugando nei cassetti dei ricordi, Marianna Moneta Caglio ha ritrovato un biglietto: è il frontespizio di un libro, «Condotta di Paese», che lei stessa d’impulso strappò via, presentendo che sarebbe servito. C’è una data: «6 ottobre 1953». E una dedica affettuosa: «Al marchese Ugo Montagna con sentita amicizia e per ricordo». Infine la firma, secondo lei ancor più probante: «G. Guido Loschiavo», cioè Giuseppe Guido Loschiavo, procuratore generale della Cassazione, che nel ”66 confermò la sua condanna, chiudendo definitivamente il caso Montesi.
Ecco perché l’8 febbraio scorso Marianna Moneta Caglio, insieme con sua figlia Alessandra, avvocato penalista, ha presentato ricorso al ministro di Grazia e Giustizia e al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione per chiedere la riforma di quella sentenza che la condannò a 2 anni e 6 mesi. «Il verdetto fu confermato dalla Cassazione dell’epoca - dice Anna Maria - Ma il 6 ottobre ”53, lo stesso giorno, cioè, in cui uscì la rivista Attualità con il titolo a caratteri cubitali La verità sulla morte di Wilma Montesi, io ero a casa di Montagna, in via Gennargentu. E arrivò Loschiavo con il libro in dono. Poi, quando quell’uomo se ne andò, Ugo mi disse: Guarda quanto sono potente... Ma io non sapevo che fosse un giudice di Cassazione. Lo venni a sapere solo quando fui condannata. Montagna e Loschiavo erano amici, capito? Il dettaglio non mi pare trascurabile...».
«Io, però, non ho mai accusato Montagna e Piccioni di omicidio. E non ho mai pensato neppure mai di calunniarli - continua la signora, discendente di una nobile famiglia che fu titolare della Zecca di Milano (da qui il nome Moneta) - Solo raccontai ai giudici quel che mi disse Montagna a Capocotta, nei giorni dopo il ritrovamento del corpo di Wilma. Ugo si sfogava contro Piccioni, mi diceva che era un debosciato, che ne aveva combinata una grossa e che doveva difenderlo. Già, ma ormai cosa importa?».
Sono passati 57 anni dalla morte di Wilma Montesi. Quel che accadde in quei giorni a Tor Vaianica nessuno forse lo saprà mai. Di sicuro la ragazza non annegò per un pediluvio, come voleva far credere all’inizio la polizia. Peccato, perché i protagonisti di allora sono morti: Piccioni, Montagna, Loschiavo, Amintore Fanfani che allora era ministro dell’Interno e sulla morte di Wilma ordinò un’inchiesta. Mentre accarezza i suoi gatti, la signora Marianna sorride: «Uno ancora vivo ci sarebbe. Giulio Andreotti. Chissà se sa qualcosa...».
Fabrizio Caccia