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 2010  marzo 27 Sabato calendario

IL VOTO TRUFFA DEL 1860 E I NEOLEGHISTI SABAUDI

Neanche un titolino! Il fusto piacente Emanuele Filiberto Umberto Reza Ciro René Maria di Savoia, principe di Piemonte e di Venezia, ci farà una malattia. Ma se non l’hanno ancora avvertito, glielo dobbiamo dire noi: della sua partecipazione al festival di Sanremo al fianco di Pupo, nella bella Savoia dei suoi avi, non si è accorto nessuno. Il che, per l’aspirante erede di un trono che ha scelto un ruolo da tronista, è un colpo duro. Se può consolarlo, sappia che anche la nouvelle Reine de France, Sua Altezza Elegantissima Carlà, e il di lei consorte Nicolas Sarkozy non se la passano bene. Basti dire che perfino il dipartimento dell’Alta Savoia, storica roccaforte della destra, è caduto. E che la sinistra può sventolare 17 punti di vantaggio nella Savoia propriamente detta, 21 ad Albertville, 27 a Chambery, il delizioso capoluogo del ducato prima che la dinastia decidesse di trasferirsi a Torino.
Sono passati 150 anni esatti dal giorno in cui i Savoia scelsero di lasciare la loro terra per puntare sull’Italia. Era il 24 marzo 1860 quando Vittorio Emanuele II firmò il trattato di Torino con il quale cedeva la sua terra natale e la Nizza di Garibaldi alla Francia in cambio dell’appoggio francese al processo politico e militare che avrebbe portato all’Unità. E la cosa, come testimonia la copertina de L’Express in edicola, non è mai stata da molti del tutto digerita. Basti leggere il titolo provocatorio del settimanale: «Era necessario riattaccare la Savoia alla Francia?».
Per niente, rispondono gli autonomisti della Ligue Savoisienne. Nati a metà degli anni 90 nella scia del successo della Lega Nord con la quale oggi hanno rapporti freddini («non ci piace la xenofobia») gli autonomisti hanno diffuso un combattivo volantino: « Savoia 1860-2010: 150 anni di annessione francese. Stop o ancora? Spetta al popolo decidere! 150 anni dopo il referendum sotto l’oppressione del 22-23 aprile 1860 è tempo di rivotare! Un voto libero e senza tabù!».
Patrice Abeille, il Bossi savoiardo, un ex professore di lettere ed ex albergatore, ha fatto la scelta dei salmoni: ha risalito la corrente della storia patria per tornare a vivere nella Savoia più profonda, Sainte Reine, un paesello di 124 abitanti sperduto sulle montagne a nord est di Chambery. Spiega che «l’annessione fu una truffa. Votarono in pochissimi e la sproporzione fra i sì all’annessione e i no fu così esagerata da non lasciare dubbi sull’imbroglio».
Cita una pagina del libro «Storia dell’annessione della Savoia alla Francia» dello storico Paul Ghichonnet, docente all’Università di Ginevra, decorato con la Legione d’onore: «Il 29 gennaio 1860 ebbe luogo a Chambery una manifestazione anti-separatista. Malgrado la neve che scendeva a fiocchi fitti, un corteo numeroso, 3.000 persone secondo le autorità, preceduto da 20 portatori di drappi verdi-bianchi-rossi, si recò al palazzo del governatore. Qui Marc Burdin lesse un indirizzo affermando la volontà degli abitanti del ducato di "continuare a far parte integrante degli Stati di questa casa di Savoia, di cui la nostra terra è stata la culla e di cui i nostri padri hanno seguito, per otto secoli, i gloriosi destini...». E non finiva qui. Richiamandosi direttamente allo Statuto Albertino, l’appello proseguiva: «Noi siamo risoluti a restare liberi sotto lo statuto costituzionale che Carlo Alberto il magnanimo ha dato alla nazione». A quel punto, il marchese Orso Serra, governatore di Ciamberì (così si chiamava la città, in italiano), lesse un telegramma di Cavour appena consegnato: «La politica del governo di Sua maestà è nota; essa non è cambiata in nulla; il governo non ha mai pensato di cedere la Savoia alla Francia. Interrogato in precedenza dal partito che osava levare il vessillo della separazione nel paese, il governo non ha ritenuto nemmeno di dare una risposta».
La sera, prosegue Ghichonnet, al teatro dove va in scena «Le memorie del diavolo», dopo il primo atto, una pioggia di volantini col testo del dispaccio di Cavour cade dai loggioni. Il governatore savoiardo è salutato da un’ovazione. E infine, accordandosi a Madame Esscalzon, cantano tutti commossi davanti al busto di Vittorio Emanuele II: «L’entusiasmo delirante e fiori e corone di alloro sono gettati ai piedi delle figlie del monarca finché l’orchestra attacca la marcia reale».
Ebbene, chiedono oggi gli autonomisti, «tre mesi più tardi, il 22 e 23 aprile 1860, il plebiscito darà a Chambery i seguenti risultati: 3.959 iscritti, 3.619 votanti, 3.588 sì, 340 chamberiens non hanno votato, 31 hanno votato no o scheda nulla. Tremila manifestanti in gennaio contro l’annessione, 31 oppositori in aprile: perché?». Lo stesso Express conferma le per-
plessità degli storici recuperando una frase del corrispondente del Times: «Il plebiscito del 1860 fu la farsa più abietta che sia stata rappresentata nella storia delle nazioni».
Fu un’«annessione fraudolenta!», strillano oggi i leghisti savoiardi. E accusando Parigi di aver fatto allora distribuire solo le schede con la parola «si», dicono che comunque il trattato è stato violato in più punti e dunque loro lo considerano nullo. Quindi? Un passo alla volta, spiega Abeille: «Prima la riunificazione dei dipartimenti in cui fu divisa la regione, poi un’autonomia come quella della Val d’Aosta, poi la sovranità. Visto che siamo tutti in Europa, possiamo ben uscire dalla Francia!».
L’ipotesi che gli autonomisti possano disturbare davvero il manovratore parigino è in realtà remota. Lo ammette, malinconico, lo stesso leader della Ligue Savoisienne: «Non siamo in Italia. Da voi c’è stata Mani pulite. C’è stato il crollo dei partiti storici. Da noi no. A parte il fatto che hanno cambiato la legge elettorale in modo da rendere impossibile che noi savoiardi possiamo presentarci con qualche speranza alle elezioni regionali, come successe quando io stesso fui eletto parlamentare a Lione, lo Stato centrale è troppo forte. Meno male che almeno le nostre idee han fatto strada». La prova? Un titolo in prima pagina de Le Dauphiné liberé («Possibile che il giornale della Savoia si chiami ”Dauphiné”?’ si sfoga Abeille ”, Mica siamo del delfinato! Sarebbe come se i piemontesi dovessero leggere un giornale dal nome ”Lombardia"!») di qualche giorno fa: «Savoia-Alta Savoia: la fusione dei due dipartimenti sarà studiata in autunno». I due presidenti dei consigli locali «fratelli», Hervé Gaymard (Savoia) e Christian Monteil (Alta Savoia), spiegavano infatti che un secolo e mezzo dopo la separazione, i due dipartimenti dovrebbero fondersi l’anno prossimo o addirittura entro la fine del 2010. Sia chiaro: autonomisti (pochini) a parte, nessuno mette in discussione la sovranità di Parigi. Però...
Nel gran calderone delle feste per la «riunificazione», come è stata ribattezzata quella che allora sbrigativamente fu chiamata «annessione» (che importava ai sovrani dell’opinione della gente?) non è mancata la riproposizione di antiche immagini retoriche. Non tutte lusinghiere. In una la grande madre francese, con una bacinella, una caraffa e un asciugamano lava pietosa la faccia a due spazzacamini savoiardi. Sono piene di piccoli spazzacamini, le stampe francesi di un tempo. E proprio quegli spazzacamini, uguali identici a quanti per secoli partirono dalle nostre montagne, e in particolare da quelle sopra Verbania, ci ricordano come il confine tra il Piemonte e la Savoia, tra l’Italia e la Francia, sia stato a lungo il luogo del dolore della nostra emigrazione. Soprattutto quella clandestina. Il professor Saverio Amato, pugliese, che vive da trent’anni a Modane, appena di là del Frejus, l’ha studiata quella storia. E ricorda come certe tragedie si siano ripetute, con altri protagonisti, poco tempo fa: «Ricordo ancora il caso di una mamma turca che cercava di arrivare qui clandestinamente con tre bambini per raggiungere il marito che li aspettava. Nella galleria ferroviaria furono sorpresi dal treno e risucchiati. Fu una cosa orribile. Ricordo le facce del marito e dei parenti quando arrivò la notizia… Spaventoso. Quella donna, quei bambini...».
L’ultima ondata fu nel 1998: «Modane fu invasa da migliaia di extracomunitari che volevano a tutti i costi andare in Italia perché era uscita una sanatoria che dava il permesso di soggiorno a chi dimostrava di essere già nel territorio della penisola da qualche tempo. Si avvicinava l’inverno. Da qui a lì, seguendo un percorso inverso a quello dei nostri emigranti, passarono a centinaia. Io allora andavo tutte le mattine a insegnare a Oulx. Un egiziano che aveva fatto un po’ di soldi qui in Francia con una impresa edile arrivò ad offrirmi 6.000 franchi per portarlo in Italia di nascosto».
Solo una manciata di anni prima, quelle montagne punteggiate qua e là dalle fortificazioni dell’Esseillon costruite dai Savoia (forte Vittorio Emanuele, forte Maria Cristina, forte Carlo Felice..) vedevano il passaggio ogni notte di centinaia e centinaia di italiani decisi a raggiungere a tutti i costi la Francia. «Erano tantissimi», ricorda Graziano Del Treppo, un istriano di Pola presidente del Comites italiano di Chambery, dove ancora vivono 21 mila persone con il nostro passaporto, e coordinatore di tutti i nostri Comites della Francia, dove i transalpini di origine italiana sono quattro milioni e possono vantare antenati straordinari come lo statista Leon Gambetta, il pittore Paul Cezanne (Paolo Cesana, se avesse conservato il nome dei nonni), lo scrittore Emile Zola…
Angela Caprioglio e François Forray hanno raccolto in un libro, «Speriamo che…» appena mandato nelle librerie dall’editore «Il Punto» di Torino, molte di queste storie. Come quella di Bruna e Roberto Maberto, che per raggiungere il papà emigrato passarono il confine al Moncenisio un giorno d’estate del secondo dopoguerra insieme con la mamma, che «per mascherare la loro clandestinità» si era messa in spalla un rastrello e aveva raccomandato ai figlioletti di «raccogliere dei fiori» in modo che se fossero stati sorpresi dai doganieri avrebbero potuto dire che erano saliti lassù, in cima alla montagna, per fare un po’ di fieno...
Gli «orchi», come quelli denunciati dal futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi, si portavano via i bambini comprati, attraverso queste montagne. La giornalista Amy Bernardy, spiegò nel 1912 ne «L’emigrazione delle donne e dei fanciulli dal Piemonte», che dietro l’immagine romantica che mezzo secolo dopo si sarebbe tradotta nella canzoncina di Mary Poppins («Cam-caminì, cam-caminì / spazzacamin / allegro e felice / pensieri non ho») si celava una tratta infame fondata sulla miseria, dovuta alla capacità dei bambini di «ficcarsi nei tubi come sorci».
La Domenica del Corriere ha messo per decenni in copertina immagini tremende, come quella che il 7 dicembre 1947 raccontava la tragedia di «una povera madre siciliana, certa Angela Vitale maritata Di Rosa, da Canicattì» che «era rimasta sola a casa con sei bimbi, mentre il marito – espatriato clandestinamente – aveva trovato lavoro in Francia. In questi ultimi tempi la donna aveva pensato di raggiungere il marito per la stessa strada illegale da lui seguita, cioè valicando le Alpi a piedi. A questo scopo si era messa in viaggio dalla lontana Sicilia con i suoi sei bambini. Avventuratasi su per le montagne del Piemonte, in compagnia di viandanti trovati cammin facendo, priva di equipaggiamento da montagna e di viveri sufficienti, la povera donna si è trovata al cader della notte in mezzo alla bufera in alta montagna e, mentre i due sconosciuti proseguivano la strada verso la Francia, la poveretta rimaneva sola con i suoi piccoli che le si stringevano attorno per ripararsi dal gelo». Una storia terribile. «Molti altri casi – e quasi ogni giorno’ si segnalano di sciagure alpine dovute a questi rischiosi tentativi di espatrio clandestino. Dopo il fatto qui narrato, una donna, due bambini e due uomini son stati rinvenuti già cadaveri sul nevaio di Clapier», spiegava la rivista.
C’è ancora chi le ricorda, quelle processioni di poveretti a Giaglione, il paese della Val di Susa da dove gli emigranti clandestini, arrivati in treno a Torino e da lì a Susa, passavano a piedi per arrampicarsi su verso il colle di Clapier. Venti chilometri di marcia. Su un sentiero tremendo che saliva da 700 fino a 2.500 metri. Da spavento. Con le guide che a volte, per non rischiare di incappare nei gendarmi, abbandonavano i poveretti lungo la strada dopo una generica indicazione: «Lì avanti è la Francia».
Aveva 2.000 abitanti, un secolo fa, Giaglione. Adesso ne sono rimasti 670. «Viviamo nell’ incubo’ spiega Enzo Vayr, assessore alla cultura – che la Gelmini ci tolga le scuole. Se ce le toglie, siamo morti». Il vecchio Ilario Scoppapietra ha 75 anni, è ancora in gamba, e quando era ragazzo saliva su per la montagna a pascolare le vacche: «C’erano famiglie intere che emigravano illegalmente, coi bambini a tracolla e le valigie legate dietro con gli spaghi. Me ne ricordo tanti che salivano dalla Sicilia o dalla Calabria con le ciabatte». Le ciabatte? «Giuro: le ciabatte. Non sapevano neanche che lassù al Clapier anche a luglio o ad agosto può arrivare una tormenta. Ogni tanto ne moriva qualcuno». Al punto che il Comune, alla fine degli anni 40, arrivò a mandare alla prefettura di Torino un drammatico telegramma in cui chiedeva dei finanziamenti supplementari perché aveva speso troppi soldi a seppellire gli emigranti morti sul nevaio. «Li trovavamo in primavera, quando la neve si scioglieva – ricorda l’Ilario ”.Uno lo trovai anch’io. Le vacche sono curiose. Un giorno ne vidi una che coi denti strattonava qualcosa tra i sassi. Erano i brandelli del vestito di un disgraziato».
Umberto II, il «Re di maggio» che quelle montagne del suo Piemonte e della «sua» Savoia non fece neanche in tempo a conoscerle, riposa nel silenzio di una cappella a Hautecombe. Sul ripiano c’è una foto sua e della moglie Maria Jose. C’è anche una piccola lapide. C’è scritto: tomba provvisoria. La misero i parenti nella speranza che un giorno sarebbe stato portato, chissà, al Pantheon. Anni fa salivano quassù alla abbazia, che si affaccia sul lago, quasi mezzo milione di persone l’anno. Adesso non arrivano a centomila. Dei quali un quarto circa italiani. Come i ragazzi del Convitto nazionale Giacomo Leopardi di Macerata. Loro sì, sono venuti perché i Savoia fanno parte, bene o male, della nostra storia. Altri vengono così, perché hanno orecchiato qualcosa da un vicino che leggeva una rivista dal dentista. Savoia chi? Ah, il nonno di quello di Sanremo…
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella