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 2010  marzo 26 Venerdì calendario

SE BERLINO DIVORZIA DALLA BCE

Finora, la solidità dell’unione monetaria si reggeva su una consonanza di fondo tra le autorità della Germania e il vertice della Bce; non fu turbata nemmeno quando il governo rosso-verde di Schroeder nel 2002 violò le regole del Patto di stabilità.
Ora invece è Berlino a promuovere una scelta sulla Grecia che alla Bce pare insidiosa per il futuro dell’euro. Per questo nell’Eurotower di Francoforte circola una inquietudine nuova.
Il triste paradosso è che le alchimie della politica producono un comportamento destabilizzante proprio da parte del Paese la cui opinione pubblica si dichiara più interessata alla stabilità della moneta. Con l’intesa di ieri si arriva a fare male ciò che si poteva fare bene tre settimane fa, quando George Papandreou arrivò a Berlino per presentare ad Angela Merkel il suo terzo, e questa volta davvero severo, pacchetto di misure di austerità. Mentre un abbozzo di piano di intervento si era già formato in contatti riservati fra i governi nella seconda metà di gennaio.
Jean-Claude Trichet ritiene che coinvolgere il Fondo monetario internazionale sia un grave errore. Può dare al mondo l’immagine di una area euro incapace di darsi da sola il proprio equilibrio. Può perfino attirare ancor più l’attenzione dei mercati sugli Stati più deboli della compagine che condivide la stessa moneta. Non sono passate inosservate a Francoforte le parole di Zhu Min, uno dei più brillanti dirigenti cinesi (vicegovernatore della Banca centrale, nonché a Washington consigliere speciale del Fmi) secondo cui «la Grecia è solo la punta dell’iceberg».
Invano la Bce ha tentato di spiegare che non si trattava di regalare soldi ai greci (pigri e imbroglioni quanto li vogliano i giornali popolari tedeschi), ma solo di prestarglieli; che la Repubblica Federale e gli altri Stati chiamati a contribuire avrebbero perfino potuto guadagnarci, imponendo alla Grecia tassi di interesse inferiori a ciò che i mercati le chiedono (oltre il 6%), ma superiori a quelli che loro stessi spuntano (fra il 3 e il 4%). Invano si è obiettato che il Fmi, altro che castigamatti, sui deficit pubblici è assai meno severo delle regole europee.
Non erano questi i soli equivoci che nelle settimane scorse hanno confuso le menti. Solo alla messinscena della politica tedesca giovava la minaccia di nuove regole per espellere dall’euro i paesi reprobi, senza che nessuno spiegasse come questo potesse tecnicamente realizzarsi (che farebbero qualsiasi famiglia e qualsiasi impresa di un paese sottoposto a procedura di espulsione dall’euro? Sposterebbero subito i conti in banca in un altro paese euro). Si è discusso di ipotesi che non esistevano; a cominciare da una nuova modifica dei Trattati europei, che dopo l’ultima desolante esperienza tutti i governi vorrebbero evitare.
L’unica consolazione è che l’Europa non è sola; gli squilibri che non riesce a risolvere intralciano anche la ripresa economica di tutto il pianeta. Facile unirsi nel biasimo ai paesi che «vivono al di sopra dei propri mezzi», come ha fatto per alcuni anni la Grecia, per giunta truccando le carte. Ma non va bene nemmeno che un paese viva «al di sotto dei propri mezzi» come fa la Germania, ossia producendo molto più di quanto consuma.
Oltre un certo limite - lo insegna questa crisi - la corsa alla competitività internazionale gira a vuoto, riversando su un paese più denaro di quanto ne possa utilmente usare (tanto che le banche tedesche ne hanno giocato non poco sui tavoli del casinò di Wall Street). Pur se il compromesso di ieri è nato tra Francia e Germania, questo problema continuerà a dividere i due paesi maggiori dell’euro, e anche gli altri.