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 2010  marzo 26 Venerdì calendario

CASTRO DURA POCHI MESI

C’è voluto quasi un mese perché Obama si avvedesse che qualcosa pare davvero muoversi a Cuba, pur nella mummificazione di un regime artritico e sordo, e, ora, trovato un piccolo spazio tra faccende di ben altra gravità - la riforma sanitaria, le resistenze di Israele, le baruffe cinesi -, ora fa sapere tutto il suo dolore per la morte per fame, all’Avana, di un prigioniero politico. Ma Castro, che nei suoi 80 anni le antenne le ha ancora ben tese, reagisce come un ventenne, e a tambur battente pubblica sul giornale del partito la sua risposta: che il Gran Nemico che sta a Washington non dica «sciocchezze», ma piuttosto mediti che la riforma sanitaria che arriva «finalmente» negli Usa i cubani ce l’hanno già da 50 anni.
Non è la solita scaramuccia tra il vecchio comunista e l’imperialismo yanqui. Nell’asprezza del giudizio di Fidel si possono leggere anche apprezzamenti per quell’imberbe giovanotto che governa a Washington. E in politica bisogna badar bene, anche un leggero vento può segnalare una bufera.
Sembra saperlo bene Salvador Lew: «Ormai è questione di mesi. Pochi mesi ancora, e loro non ci saranno più». E lo dice convinto, abbassando con forza la sua testa canuta. Per lui, i fratelli Castro sono alla fine della loro storia politica. «Cinquant’anni bastano. Finito». Lui è uno dei nomi storici della diaspora cubana, qui a Miami, e la sua radio - Radio Azul - fu la prima delle emittenti che davano voce all’anticastrismo, già negli Anni ”60. «Non ci si è resi ancora conto bene che la lotta all’interno stesso del regime si è fatta molto aspra, e che ora anche i militari sono stufi», spiega Lew. Oggi, all’Avana, i militari sono dentro il potere e sono il potere: anche Raùl Castro è un militare, ma pare che la sua tenuta sul blocco delle Forze Armate mostri qualche primo segno di cedimento, e se non sugli alti gradi dello Stato Maggiore (che godono di privilegi consolidati) certamente sull’ufficialato di secondo livello, da maggiore o capitano in giù. «Anche un capitano, quando rientra a casa la sera, vede la tavola spoglia, vuota, e la moglie che lo guarda e lo rimprovera, senza nemmeno dovergli dire una parola». E le Forze Armate sono la spina dorsale del regime. «Saranno i militari a prendere in mano la situazione», dice Lew. «Non le posso dire le fonti da cui ho queste informazioni, ma sono più che attendibili», e mi dà appuntamento a tra un paio di mesi. «Poi, mi darà ragione».
Nel vecchio Ristorante Versailles, cuore ribollente dell’anticastrismo più ortodosso, quelli che ci siedono vicini, e ci ascoltano, calano anch’essi la testa, convinti. Sono anch’esse, in gran parte, teste canute; la loro memoria è la memoria della fuga da un paese che - ai loro occhi - diventava «una dittatura comunista». E se cerchi di distinguere, precisare, spiegare, allora anche tu diventi subito «un comunista». Al Versailles non si dialoga: si milita.
Convinti o no, qualcosa comunque sta certamente cambiando a Cuba. E per i giornalisti che nell’isola non sono ammessi, le notizie che filtrano a Miami da mille rivoli di informazione sono elementi preziosi di un mosaico che non è impossibile ricomporre. Cominciamo dalla morte di Orlando Zapata per sciopero della fame. il 12.mo prigioniero politico che sia morto per fame; però mai prima c’era stata una simile reazione di protesta e di indignazione in tutto il mondo. E già c’è un altro detenuto - Guillermo Farinas - che rinuncia a cibo e acqua per protesta contro il regime.
A seguire la triste fine di Zapata, non ci sono stati soltanto i duri del Versailles, quelli che l’Avana chiama «gusanos», cioè vermi, o più ancora «maffia cubana», ma anche larga parte dell’esilio che non è legata soltanto al debito della memoria, e che in questa Guerra Fredda del Caribe non intende assumere posizioni radicali, di rottura intransigente. Sono, costoro, i figli o addirittura i nipoti dei primi esiliati, che si sentono anzitutto cittadini americani anche se la loro radice sta dentro l’isola, e guardano a Cuba con sentimenti di nostalgia, ma non di un ritorno da programmare o, peggio ancora, di una vendetta.
Juan Carlos Gonzàlez, avvocato e socio di uno studio legale con altri tre avvocati, tutti di origine cubana, parla spagnolo, naturalmente, e però d’istinto preferisce usare l’inglese: «Sono venuto qui da ragazzo, ma son venuto per cercare fortuna, perché all’Avana tutto mi sembrava ingessato, immobile, senza possibilità alcuna di sviluppo. E ora che questa fortuna ce l’ho, non voglio rinunciare. A Cuba, quando sarà libera, ci torno certamente; ma come turista, soltanto come turista».
E allora, il cambiamento? E la fine dei Castro? «Valutiamo con distacco, ragioniamoci», dice Modesto Obregòn, che e’ stato 17 anni in galera a Boniato, presso Holguìn, come prigioniero politico, dopo aver lavorato un paio d’anni nell’ufficio Propaganda della Revoluciòn. E ora è uno dei 2 milioni di esiliati cubani. «Sì, è vero, si è ridotta la presa della paura, nell’animo della società cubana. Il regime non mostra la ferrea capacità di controllo che ha avuto per decenni. E la settimana di proteste nella strada che hanno potuto far vedere al mondo le Damas de Blanco, simili alle Madres de Plaza de Mayo argentine, si è svolta senza incidenti molto gravi. Però ciò che conta è che il governo ha mostrato di poter reggere senza danni anche una protesta pubblica; e aspettarsi un aiuto dall’esterno, da fuori dell’isola, è pura illusione. Parole e parole dagli Stati Uniti, parole e parole dall’Europa, ma ben poco di concreto». Modesto non dà appuntamenti. La storia di Cuba aspetta conferme che nemmeno Miami conosce.