Giancarlo De Cataldo, Il Messaggero 26/3/2010, 26 marzo 2010
PSYCHO
Per strano che possa sembrare, dietro Psyco ci sono, allo stesso tempo, una storia vera e una ricostruzione letteraria. La storia vera è quella di Ed Gein, detto ”il macellaio del Wisconsin”, arrestato nel 1957 per l’omicidio, con modalità efferate, di due donne. La ricostruzione letteraria la dobbiamo a uno dei più originali scrittori di genere del tempo, Robert Bloch, che alla vicenda di Gein un ”mostro” campagnolo dall’infanzia tragica conferì dignità, fascino e mistero in uno dei suoi romanzi meglio riusciti: Psycho, con quell’”h” poi misteriosamente scomparsa nell’edizione italiana. E poi, naturalmente, arrivò Alfred Hitchcock, e il triste e spietato assassino di provincia, da dèmone letterario, divenne leggendario emblema della paura. Alzi la mano chi non ha provato un fremito d’orrore davanti ad almeno due scene di Psyco: quella in cui l’assassino in abiti femminili accoltella nella doccia la bionda Marion Crane (Janet Leigh) e quella in cui la sorella Lila (Vera Miles) scopre il cadavere mummificato della signora Bates un istante prima di subire l’assalto, questa volta a vuoto, del vero assassino. E cioè dello psicopatico Norman Bates, interpretato dall’indimenticabile (proprio per via di questo ruolo) Anthony Perkins. Qualcuno potrà dire: ma andiamo, sono passati cinquant’anni! Con tutto quello al quale ci ha abituati, nel frattempo, il cinema americano- dai B-movies degli anni Settanta, allo ”splatter”, alle ”tarantinate” - con tutto quello che è successo in materia di effetti speciali, rivisto oggi l’orrore di una volta fa sorridere! Al massimo, riprendendo in considerazione Psyco, si potrà provare un brivido di nostalgia: per quando eravamo giovani, magari, o per il cinema di una volta, che riusciva a mettere in campo sentimenti ed emozioni senza necessariamente portare ogni volta alla bancarotta i produttori. Che riusciva a fare paura giocando con i labirinti della mente senza (eccessivo) supporto tecnologico. Cinema di grandi autori, per intenderci. E un’altra voce potrebbe levarsi, ”in memoriam” di Psyco: una voce ironica, questa volta. Per ricordarci quel finale posticcio nel quale uno psichiatra vestito da psichiatra, o, meglio, come all’epoca si immaginava che dovesse vestire uno psichiatra, spiega a noi spettatori, guardando direttamente in macchina, la genesi della patologia di Norman Bates: morbosamente legato alla madre, la uccide e la imbalsama, e poi, avvinto nella spirale della follìa, giustizia donne che le ricordano l’adorata mammina. Riguardare, con gli occhi di oggi, i capolavori del passato, è operazione rischiosa, ed anche ingiusta e irriguardosa. Il cinema invecchia molto in fretta, travolto dalle tecnologie e dai velocissimi tempi di adeguamento dell’immaginario. Ma per Hitchcock si può fare un’eccezione: perché il suo cinema, il suo cinema migliore (e Psyco ne fa indubbiamente parte) sembra sfidare il tempo: non solo non invecchia, ma si finisce, e quasi con un certo sgomento, ad apprezzarlo ancora di più di un tempo. Perché Hitchcok osava, si spingeva, film dopo film, oltre la frontiera, già avanzata, che aveva stabilito con il film precedente. Aveva, insomma, un immenso coraggio: qualità, al giorno d’oggi, estremamente rara. Così, se la storia di Psyco è arcinota, le svolte che Hitchcock vi imprime, e che all’epoca furono giudicate spericolate, risultano, ancora oggi, sorprendenti. Marion ruba 400.000 dollari al suo ufficio e si rifugia nel motel di Norman Bates. Immaginiamo, dunque, una caccia al ladro. Ma, a meno di un terzo della storia, una misteriosa figura femminile (così a noi sembra) uccide Marion. A parte la sequenza memorabile (ventisette secondi di pura adrenalina), abbiamo appena perso la protagonista quando entra in campo il detective Arbogast (Martin Balsam), inviato a scovare la ladra. Siamo passati, dunque, alla caccia all’assassina? Nemmeno per sogno. Arbogast viene anche lui eliminato. Metà film, e siamo nel panico più totale: ma chi è il protagonista? Che razza di storia ci sta raccontando Hitchcock (che abbiamo, nel frattempo, individuato nella fugace apparizione di un uomo in strada con cappello texano)?. Nessuna paura. il turno di Lila, sorella di Marion. Bionda, come lei (sono sempre bionde, angelicate, e sottilmente perverse, le eroine hitchcockiane), e impegnata a ritrovare, a un tempo, la sorella scomparsa, il bottino e, da qui in avanti, l’assassina/assassino. La caccia, dunque, si combina, e diventa triplice. I protagonisti si avvicendano: e questo resta, ancora oggi, uno strappo considerevole alle regole. Perché il pubblico esige sempre ”un” protagonista, nel quale identificarsi, per il quale fare il tifo, e Hitchcok gli nega questo privilegio dovuto, o, meglio, lo concede a ”staffetta”. Sino al sorprendente finale nel quale il vero protagonista si rivela il cattivissimo, crudele, ma, nello stesso tempo, degno di pietà, Norman Bates. Non solo, dunque, l’archetipo, consegnato alla Storia, di una miriade di situazioni che avremmo imparato a rivivere in innumerevoli film (di genere e non) negli anni a venire, ma una profonda, definitiva lezione di modernità. Psyco ha avuto qualche figlio, nel tempo. Fra cui un ”remake” firmato dallo stesso Perkins, che le leggende hollywoodiane vogliono legato per la vita all’ossessione di Norman Bates: eppure, era, a suo modo, un attore di notevole talento (rivedere Il processo di Orson Welles, un altro che non invecchia). Mentre echi della vicenda del ”macellaio” Ed Gein si ritrovano in Tobe Hooper, piccolo/grande artigiano della paura, e persino nel Silenzio degli innocenti. Onore, dunque, non solo alla memoria, ma all’attualità di Hitchcock. Un maestro, a volte, così in anticipo sui tempi, da ingannare persino un palato fine come quello di Italo Calvino: che a una mostra storica di Venezia vide La finestra sul cortile e lo liquidò con una frettolosa e sprezzante stroncatura. Per fortuna, almeno con Hitchcock, il tempo è stato galantuomo.