Michele Anselmi, Il Riformista 22/3/2010, 22 marzo 2010
CIAK, SI MINA! UN JUKEBOX AL CINEMA
Le nuvole e la luna ispirano gli amanti
sì, ma per tanti, compreso me,
è ti - pi - o - logico il vero amore
è zo - o - ologico fin dentro il cuor.
La radioattività un brivido mi dà
ma tu, ma tu… di più, di più.
(’Eclisse Twist” di Mina)
Da ”Teletutto” del 24 marzo 1962. Titolo: «Sei ore per cantare un’Eclisse». Vi si legge: «Michelangelo Antonioni è un uomo di gusti raffinati. Non sono pochi coloro che hanno mostrato sorpresa nell’apprendere che, usando lo pseudonimo di Ammonio Sacca, il regista si è dato all’attività di paroliere scrivendo i testi di due canzoni per la colonna sonora del suo film L’eclisse». In effetti, Antononi prese molto sul serio il giochino, tanto da assicurarsi la presenza di Mina, all’epoca neanche ventiduenne, ma già famosa. Continua il rotocalco: «Solo per Eclisse Twist regista e cantante si sono trattenuti in sala di incisione più di sei ore. Mina, disciplinata e paziente, non si è limitata a incidere la canzone in italiano, ma ha ripetuto la prova in inglese, francese e tedesco. La sua voce, in tal modo, si potrà udire anche nelle edizioni straniere del film».
Diciamo la verità. Le parole di Antonioni, vai a capire se enigmatiche o demenziali, suonano oggi come certi suoi dialoghi smozzicati, fasulli, buttati lì a esprimere il tema dell’incomunicabilità, «la critica dell’interiorità», poi oggetto di derisione pure eccessiva («Mi fanno male i capelli»). E tuttavia rivedi quel film, con Monica Vitti e Alain Delon impegnati a tenere insieme un amore che sta per esclissarsi, e lo strambo twist ”radioattivo” piazzato sui titoli di testa illumina un mondo, evoca uno stato d’animo, descrive un’Italia borghese in chiave di spiritoso contrappunto. Magari oggi starebbe bene in un film di Tarantino, e chissà che prima a poi il cineasta di Bastardi senza gloria non si faccia tentare. Lui ci andrebbe a nozze. Anche se è probabile che alla Mina di L’eclisse preferisca la Mina del b-movie Urlatori alla sbarra del prediletto Lucio Fulci.
Mina e il cinema: un rapporto irrisolto, a corrente alternata, nato proprio nel fatidico 1960, quando Domenico Paolella la volle accanto a Mario Carotenuto, Delia Scala e Teddy Reno per I teddy boys della canzone. Musicarelli, appunto. Ne vennero molti altri, da Madri pericolose sempre di Paolella, a Urlatori alla sbarra appunto, dove faceva coppia fissa con Celentano; da Mina… fuori la guardia di Armando Tamburella a Io baci… tu baci di Piero Vivarelli, accanto a Umberto Orsini e a una folla di colleghi: ancora Celentano, Gianni Meccia, Jimmi Fontana, I Flipper, Tony Renis, Tony Dallara.
«Trionfo assoluto di Mina», elogia Marco Giusti nel suo dizionario Stracult. «Siamo al meglio del periodo. La storia non esiste. Mina e i suoi amici si incontrano in un locale e fanno musica. Uno speculatore, Mario Carotenuto, vuole sfrattarli, ma è proprio il padre di Mina». La quale sgrana, l’uno dopo l’altro, brani come Le mille bolle blu, Serafino campanaro, Passione in napoletano, perfino Il cielo in una stanza di quel Gino Paoli che oggi, poco generosamente, definisce Mina «esecutrice» ma non «interprete».
Non erano ancora gli anni dell’indiscusso successo tv (e della ”scandalosa” gravidanza extra-matrimoniale dovuta alla relazione con Corrado Pani), sicché, pur gettonatissima nei juke-box, la tigre di Cremona continua ad apparire in film di svelto consumo, come Appuntamento in Riviera di Mario Mattoli, del 1962. L’anno prima, in La ragazza con la valigia di Valerio Zurlini, l’intramontabile Tintarella di luna fa da sottofondo alla rissa finale fra Riccardo Garrone e Jacques Perrin all’ombra del grattacielo di Milano Marittima. Mentre Fiesta brasiliana finisce addirittura nel tedesco Das haben die Mädchen gern di Kurt Nachmann. Nel 1967, all’apice della gloria del sabato sera, Mina non rinuncia a esibirsi in una particina da guest-star, nel ruolo di Aichesade, in Per amore… per magia di Duccio Tessari, accanto a Gianni Morandi-Aladino, Paolo Poli e Sandra Milo. «Più che un musicarello, il tentativo di un musical bizzarro e trash prima del trash», annota Giusti.
Ma nel frattempo l’ex Baby Gate ha capito che il cinema non è la sua specialità. Fellini la vorrebbe per Il viaggio di G. Mastorna, però non se ne farà nulla. In televisione lei esplora nuovi look, sfodera criniere di capelli, esibisce gambe infinite, trasforma la gestualità delle mani in un marchio di fabbrica, una nuova forma di sex-appeal. Meglio cantare nei dischi e sul piccolo schermo, se poi il cinema riprende e paga i diritti, che schizzano alle stelle, tanto meglio.
Ne sa qualcosa Enzo Monteleone, che due anni fa, per il suo Due partite tratto dall’omonima pièce teatrale di Cristina Comencini, ha voluto ad ogni costo tre brani di Mina, dei più noti: Se telefonando, Un anno d’amore e L’uomo per me. «Il produttore s’è svenato», scherza. «Certo, avrei potuto scegliere Caterina Caselli o Wilma Goich, oppure fare una colonna sonora mista. Ma Mina è Mina, anche fuori dalle sue canzoni». In che senso? «Nel primo tempo, ambientato nel 1967, io parlo di quattro donne insoddisfatte, pre-femminismo e pre-Sessantotto. Mina è un modello per loro: la donna forte che sceglie uomini sposati e fa figli fuori dal matrimonio. E poi il trucco, il vestito, l’acconciatura. Per quelle donne, che non leggono Marcuse e non ascoltano neanche i Beatles, Mina è una boccata d’aria, una sorta di guida spirituale per giovani mogli insoddisfatte, una superwoman non inscatolata, forse un’avanguardia della liberazione».
Non ancora l’icona gay che sarebbe diventata nei decenni successivi, al pari (e più) di Raffaella Carrà, Patty Pravo e Loretta Goggi. Rivedere per credere Tacchi a spillo di Pedro Almodóvar, 1991, dove un Miguel Bosé travestito da drag-queen mima in playback Un año de amor nell’esecuzione di Luz Casal. Il che non ha impedito a Gay.it di scrivere, sotto il titolo «La tigre cambia il look ma non il vizio», una formidabile stroncatura di Veleno. «Qui se ne parla perché Mina ”piace ai gay” (si vede particolarmente capaci di sopportarne pigrizia e capricci ormai fuori da ogni tempo). A noi sembra l’ennesima cura del sonno ammannitaci da una sciura che arriva nello studio musicale in ciabatte, quando canta è sempre ”bona la prima!”, e si fida ciecamente del figlio come miglior arrangiatore possibile al mondo, anestetizzata da collaboratori piacioni. Chi davvero vuol ritirarsi segue l’esempio di Garbo o Dietrich, e non si mette a cantare dal citofono». «Su questo versante, francamente, sono poco ferrato», sorride al telefono Piero Vivarelli, regista di quel Io bacio… tu baci che faceva spudoratamente il verso, nel titolo, a Io amo… tu ami di Blasetti.
«Fui il primo, credo, a farle fare la protagonista. Gli misi accanto Umberto Orsini che lavorava con Visconti. Era il 1961. Ricordo una professionista non seria, serissima. Anche una brava attrice, imparava il copione a memoria, accettava consigli, rimproveri. La storiella era sempre la solita, rubacchiata a L’eterna illusione di Capra, riveduta e corretta. Fisicamente era un po’ sedanona, ma di sicuro una bella ragazza, dotata di temperamento, ma disciplinata. Non s’è mai montata la testa, è sempre rimasta coi piedi per terra». Vivarelli ricorda, sul filo della nostalgia: «La sera si andava insieme in un locale alla moda, la Grotta del Piccione, dietro Piazza della Posta, spirava un’aria da ”Dolce Vita”. Mi piaceva, Mina, ma avevo troppo rispetto per lei, giuro: non ci ho mai provato. Amica era e amica resterà, ogni tanto ci sentiamo al telefono». Che sia ancora la migliore non ha dubbi: «Se Liza Minnelli dice che Mina è la più grande in assoluto, bisogna crederle. Lei è come Celentano e Dalla, potrebbero cantare anche l’elenco del telefono».
Magari Vivarelli esagera. Ma certo le canzoni di Mina, soprattutto certi evergreen, funzionano al cinema come una sorta di macchina del tempo. Accattivanti ed evocative. Perfino un regista sofisticato come Alain Resnais ha voluto Parole, parole, parole…, sia pure nella versione Dalida-Delon, in un suo fortunato non-musical del 1997, mentre Gabriele Salvatores, per Io non ho paura non ebbe dubbi nell’utilizzare l’ultra saccheggiata Se telefonando. «In verità, mi ha dato un po’ fastidio pagare i diritti a Maurizio Costanzo», confessò ai giornalisti. Ma al cinema, si sa, le emozioni costano.