Ferruccio Peroni, Il Riformista 24/3/2010, 24 marzo 2010
DALL’ASSE PRODIANO AL DIALOGO CON GIULIO
Un banchiere che rivendica un profilo da pensatore non è una novità assoluta nel panorama finanziario italiano. Un intellettuale sul ponte di comando del credito era stato, nell’accezione più compiuta, forse, Raffaele Matteoli, il presidente della Comit a metà ”900. Giovanni Bazoli per formazione, educazione e tradizione familiare, va però più in là del mecenatismo dell’archetipo moderno della borghesia lombarda, impregnato di cultura e portatore di un pensiero prepolitico.
Giunto all’età di 77 anni, qualche bilancio diventa inevitabile e Bazoli banchiere rivendica, oltre al pensiero, anche una coscienza, una moralità. E’ il suo Rubicone: da homo oeconomicus a cittadino del mondo globalizzato con molti vantaggi e altrettante imperfezioni. Un luogo in cui l’economia non può più essere neutrale.
Questo verrebbe da dire, leggendo tra le righe dei suoi interventi, sempre più numerosi, tra cui quello pubblicato, ultimo in ordine di tempo, Chiesa e capitalismo, in tandem con il giurista tedesco Ernst-Wolfang Böckenförde, e che ha già fatto molto discutere, suscitando interesse e qualche polemica. L’economia, sostiene Bazoli, è politica perchè attraverso le regole, il diritto, deve perseguire non solo la libertà d’intraprendere, ma anche l’uguaglianza tra individui che non è data: ma ”un dovere da compiere”, ricorda citando un passo di un grande laico, Norberto Bobbio. Oggi che la crisi porta a vedere i molti risvolti delle medaglie appuntate sul petto dei liberisti tout court, Bazoli confessa apertamente l’iscrizione al partito di chi ha una visione ”antropologica” e non solo mercatista dello sviluppo del sistema mondiale.
Lo spazio sempre maggiore che il banchiere concede al professore per incursioni su campi diversi e laterali rispetto all’attività core, con interventi, articoli, saggi, sembra produrre un riposizionamento strategico. Bazoli quasi più vicino a Giulio Tremonti, per esempio, di quanto sembrerebbe a prima vista. Di certo orientato verso un canale di comunicazione meno istituzionale, ma altrettanto autorevole ai fini della reputazione, asset immateriale e dal valore che supera qualsiasi bonus.
A Bazoli, dice chi lo conosce, non piace sembrare scortese, e in fondo non lo è mai; ma quando lo chiamano a interventi non tecnici, extra Abi e extra Fmi, su etica e capitalismo, profitto e morale, spesso deve dire di no. Dal momento che ogni sua parola viene riportata dai giornali amici e meno, non può che studiare a fondo, prepararsi su ogni tema che gli è caro e la sua agenda è complicata dalla molte partite aperte nel suo ramo d’azione principale.
Il rapporto con la stampa è vitale, almeno nei confronti della quality paper italiana, e la dialettica spesso sottotraccia è presente in un confronto indispensabile nella rappresentazione del potere e dei suoi equilibri. Un rapporto basilare per legittimare una constituency anomala e trasversale alla base della carriera al vertice del sistema finanziario. Carriera non facile, all’inizio, con imboscate e isolamento, a cavallo degli anni 90, da parte di quel salotto buono della finanza di cui in seguito è diventato accreditato interlocutore. Fino a conquistarne una indubbia leadership.
Da qui l’attenzione alle relazioni nei giornali: mai nemici a viso aperto del banchiere, ma a volte critici verso il pensatore con una superficiale lettura della complessità; sospettosi quasi di una diversa e inedita autorità etico-giuridica nel tempio del capitalismo, sintetizzata dall’appellativo, certo non amato, di Abramo, che gli piove addosso quasi quotidianamente dal sito Dagospia.
Così è questo il primo lato dell’articolato profilo con cui si può tracciare un identikit frettoloso come un’istantanea fotografica di Giovanni Bazoli. L’uomo di pensiero oltre che l’uomo di banca, l’uomo di successo che riceve la Legion d’Onore, massima onorificenza francese, ma che ama il ritorno nella provincia da cui è decollata la sua non comune avventura di cinquantenne avvocato e docente universitario di diritto.
Il secondo lato illumina l’attività professionale. La sua creatura bancaria è cresciuta oltre gli obiettivi più rosei, da presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, in vista di una conferma ritenuta certa per un altro triennio, ricopre un ruolo uguale, oggi, a quello rivestito nell’ultimo decennio, ovvero lo snodo naturale delle maggiori partite tra poteri forti e poteri politici.
La fine del prodismo che lo voleva marginalizzato secondo il clichè dello spoils system all’italiana, lo riconduce dunque ove era collocato fin dalla scomparsa di Enrico Cuccia e Gianni Agnelli. Tutore di un sistema che poggia su responsabilità individuali rigorose, come ha dimostrato anche in occasione della scalata al ”Corriere della sera”, o nel reagire agli attacchi di chi, sui giornali amici, indicava nel troppo vasto potere dei banchieri, causa ed effetto del vuoto politico, un’eccezione tutta italiana.
Nel terzo lato lo si ritrova ancora dominus del cosiddetto risiko finanziario tra Roma, Milano e Trieste, grazie alle indubbie capacità di mediazione, rivestendo rapporti corretti e coerenti con il peso dei pacchetti azionari che rappresenta. Anche nei confronti dell’altro banchiere di riferimento del sistema Italia, Cesare Geronzi, presidente di Mediobanca, sicuramente diverso da lui. Anche se un tratto in comune si può trovare. La vicinanza non tanto alla Dc in quanto partito, quanto alla scuola democristiana della gestione del potere, mai propensa agli scontri frontali, sia pure su versanti differenti. Dicono i più critici che quel patto di non belligeranza altro non è che restaurazione. Un passo indietro rispetto all’innovazione del sistema bancario, dal momento che la coppia Bazoli-Geronzi ”ha spazzato tutto quello che c’era della cosiddetta finanza laica del secolo scorso” osserva un banchiere attento e anonimo, indicando una schiera di manager e tecnocrati di cui caposcuola era Mario Draghi, oggi governatore della Banca d’Italia, alla quale si deve l’ingresso del Paese in Europa (anche attraverso le privatizzazioni, teorico fondamento della modernizzazione, anche se poi andò come andò).
Il perno di un sistema. Bazoli non ha mai tradito il bazolismo, cattolicesimo popolare, sì, ma una fermezza quasi insospettabile visto il suo fare impregnato di cortese e accorta diplomazia. Fermezza dimostrata nei momenti bui dell’accerchiamento alla sua banca – allora Ambroveneto, dallo strappo di Pietro Schlesinger, all’assalto di Gemina e Comit. Fu proprio nell’occasione dell’avvento di Geronzi da Roma a Milano, nel cuore della capitale morale di via Filodrammatici che manifestò con durezza contro un risvolto della fusione Capitalia-Unicredit. Non per l’operazione in sé, che venne accolta con favore per il generale riequilibrio del sistema, ma in difesa dell’autonomia delle Generali, partner storico del suo gruppo fin dai tempi della relazione intellettuale e operativo con Alfonso Desiata.
Duttilità invece venne mostrata nella partita Intesa/Alitalia, un salvataggio che lo ha visto defilato. Ma certo non disattento a che quel filo tirato dall’équipe della sua banca non si rompesse mai del tutti. Portò al cuore della neonata maggioranza di centrodestra quella manovra? Di sicuro non la allontanò. Ora che Tremonti sembra fare spazio a Giovanni Gorno Tempini, bresciano e vicino al professore, direttore generale dell’altra e minore creatura finanziaria, la Mittel, per la poltrona di ad della Cassa depositi e prestiti, Bazoli pescherà un’altra carta giusta da giocare. Spesso un jolly, come nel caso di Pietro Modiano già a capo della Banca dei territori, in rotta con Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. Con un colpo da maestro, di cui andò fiero, Bazoli nominò Modiano plenipotenziario dell’universo Romain Zaleski indebolito da debiti record, riuscendo senza strappi nel duplice scopo di evitare fratture con la componente piemontese del suo istituto, e non mortificare Modiano stesso che finì a custodire, nella holding Tassara, lo scrigno di pacchetti strategici. Ora potrebbe anche nominare, se ritenesse, un membro nel Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo dal momento che detiene oltre il 2 per cento delle azioni.
Così nella partita per la presidenza del Consiglio di gestione in scadenza, e pare molto seguita da Tremonti stesso, da un lato figura come sponda dell’amico Enrico Salza con cui realizzò la fusione, dall’altro Bazoli sembra in sintonia con Angelo Benessia, a cui viene attribuita ostilità verso Salza e alla guida della Compagnia San Paolo, maggiore singolo azionista dell’istituto. L’attenzione pare volta, ancora, ad un obiettivo finale di lungo termine: saldare la Compagnia di San Paolo al carro dell’amico fidato Giuseppe Guzzetti della Fondazione Cariplo, altro azionista di peso.
Anche per Corrado Faissola verrà il tempo di lasciare la presidenza dell’Abi, che fu dovuta alla tessitura tenace di Bazoli. Faissola forse lascerà dopo quattro anni la prestigiosa poltrona a Giuseppe Mussari, altro personaggio di una rete che Bazoli nel tempo ha costruito, ma garantirà a Bazoli con la componente bresciana la riconferma nel board di Ubi, banca nata dalla fusione della Lombarda di Brescia con la ex Popolare di Bergamo, tassello di una presenza locale irrinunciabile.
L’eterno ritorno. Politicamente non isolato, finanziariamente con un potere intatto, il prossimo approdo da intellettuale avverrà ancora dalle pagine dell’editrice Morcelliana, erede di quel filone culturale e spirituale ispirato a Papa Montini e Jacques Maritain. Parlerà ancora di uomo e modernità, di provvidenza e progresso. Temi che appassionano e che possono essere la chiave per fare della buona economia, anche un’economia buona. Secondo una visione del mondo da giurista, prima ancora che da banchiere.
Ferruccio Peroni