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 2010  marzo 26 Venerdì calendario

BARTHES, LA RENAULT E IL COLLOQUIO DA COPYWRITER

Si racconta che ai seminari di Roland Barthes, nei primi anni Sessanta, fosse spesso presente Georges Peninou: all’Ecole des hautes études en sciences sociales, tra letterati e semiologi, filmologi e psicanalisti, critici e sociologi si insinuava un valente pubblicitario. Del resto, erano gli anni in cui, tra le risentite perplessità dei colleghi sorboniani, Barthes scriveva di pubblicità: le mitologie sui detersivi e la Déesse, la retorica della pasta Panzani, persino un saggio nei Cahiers de la publicité. meno noto che di lì a poco Peninou, responsabile del settore ricerche in Publicis, propose a Barthes di collaborare a un progetto di comunicazione per Renault.
Barthes cortesemente si recò negli uffici dell’Etoile, ascoltò con attenzione, esaminò innumerevoli annunci, blaterò qualcosa: alla fine si ritirò in buon ordine. Per lui, la semiologia era soprattutto analisi etica delle forme sociali, tentativo di liberazione del linguaggio dagli stereotipi del senso comune. Mettere il suo fiuto al servizio di una campagna pubblicitaria significava piegare le esigenze critiche della scienza delle significazioni alle prospettive del mercato e alle costrizioni della cultura di massa. La sua anima brechtiana non avrebbe mai potuto accettare questo compromesso: ne venne fuori un nuovo scritto sull’automobile come «Proiezione dell’Ego», destinato a restare tra le sue cose meno note. il destino di Barthes: individuare un campo di discorso inusuale, suscitare il sospetto dei benpensanti e ritrovarsi sistematicamente trasformato in oggetto alla moda, «rosolato come una frite».
Era accaduto per le mitologie, stava accadendo per la semiologia della pubblicità, sarebbe successo per la nouvelle critique, per l’analisi del racconto, per Tel Quel, per il discorso amoroso, per la fotografia. Ma la buona distanza che adesso possiamo prendere da Barthes permette di rimuovere quest’impietoso destino. Così come è stato sostenuto che la miglior semiotica barthesiana non si trova negli Eléments de sémiologie e la sua miglior analisi letteraria non si trova negli Essais critiques, allo stesso modo possiamo affermare che le cose maggiormente interessanti di Barthes sulla comunicazione pubblicitaria non sono nei suoi scritti più noti su di essa. Inoltre la semiologia barthesiana applicata al messaggio pubblicitario è oggi più un ostacolo che un aiuto per chi vuol tentare analisi efficaci dell’universo comunicativo. Allora si tratta di ritrovare i luoghi in cui Barthes parla in modo più o meno diretto di pubblicità, come nei saggi Le message publicitaire, Rhétorique de l’image e Société, imagination, publicité. (...)
La rilettura di questi saggi rende possibile una serie di considerazioni di varia natura, innanzitutto l’idea della franchezza del senso pubblicitario. Laddove molti autori (Adorno, Packard, Williams, Baudrillard) hanno insistito sull’occultezza della persuasione a cui la pubblicità farebbe ricorso, Barthes rileva il fatto che l’annuncio pubblicitario non nasconde per nulla i suoi scopi di convincimento o di seduzione. Al contrario, esso «esterna il suo senso ultimo» in una «comunicazione franca», aperta, dichiarata. (..) Grazie all’analisi della pubblicità, la semiologia si configura non tanto come una pratica interpretativa dei contenuti veicolati, quanto come una scienza delle forme linguistiche adoperate. (...)
Diversamente da una secolare convinzione filosofica, Barthes ripete spesso che l’evidenza non implica la semplicità; essa è semmai l’effetto costruito di un sistema semiotico profondo dove, con Saussure, tutto si tiene. Se è così, non è più il caso – sostiene – di parlare della pubblicità come di una lingua, con suoi segni specifici e altrettante regole per combinarli tra loro. (...) «La pubblicità è un linguaggio non in quanto definisce un certo modo di dire le cose (uno stile), ma in quanto impone sostanzialmente una struttura originale ai suoi enunciati». Si può parlare della pubblicità come di un «genere letterario». Così come si ha romanzo a prescindere dal fatto che sia in francese o in ungherese, allo stesso modo si ha pubblicità a prescindere dal fatto che si configuri come annuncio a stampa, cartellone stradale o spot televisivo. Il che non significa, ovviamente, che i supporti espressivi e i mezzi di comunicazione non abbiano alcuna importanza. Essi, pensa Barthes, se pure non contribuiscono a determinare una definizione semiologica della pubblicità, entrano in gioco a un altro livello culturale: quello della ricezione. (...)
Emerge qui il valore antropologico che il discorso pubblicitario assume nella nostra società: da diverso tempo – osserva Barthes – la pubblicità è entrata a far parte del nostro rapporto ordinario con il mondo «allo stesso modo che la terra faceva parte dell’orizzonte del contadino». Il gesto pubblicitario è ormai di tipo «subacqueo», si insinua tra le nostre azioni di tutti i giorni e di tutti i momenti. (...) Occorre allora prospettare un consumatore del tutto passivo? Sappiamo che le cose sono molto diverse, e che esistono nei consumatori, non solo forme di resistenza ma veri e propri comportamenti attivi che rendono possibili certe pubblicità e non altre. E qui sembra misurarsi gran parte della distanza che ci separa da Barthes. Secondo l’interpretazione più diffusa della sua opera, la visione della comunicazione sarebbe unidirezionale e a dir poco riduttiva, poiché non prenderebbe in considerazione gli atteggiamenti del destinatario. Cosa che vale ancora di più nella società attuale, dove i consumatori della comunicazione, sempre più disincantati e competenti, mettono in opera vere e proprie strategie di «guerriglia semiologica». In realtà, la posizione di Barthes è ben diversa.
Tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60, Barthes assiste all’emergere rapidissimo della società dei consumi e del discorso pubblicitario che le è organico. Si pone allora il problema di comprendere il funzionamento sia dell’una sia dell’altro. (...) Barthes prospetta un’immagine del discorso sociale come vera e propria azione sul reale. (...) La pubblicità, ripete Barthes, fa ricorso e alimenta il serbatoio di immagini e di valori della psiche umana. Essa dunque non colpisce indiscriminatamente un destinatario inerte ma entra in relazione con un universo immaginario preesistente, lo assimila al suo interno ricaricandolo di senso, e ne offre nuove configurazioni e nuove significazioni.
Se la migliore pubblicità emula la poesia – pensa Barthes – non è per le eventuali sensazioni impalpabili che essa potrebbe evocare. semmai perché mette in opera strutture linguistiche di tipo poetico che permettono al soggetto di ricostruirsi o di riaffermare un immaginario che, se molte volte è rasserenante e consolatorio, altre volte è invece profondo e inquietante: (...) è il caso in cui esso ripropone quei grandi «temi» che – scrive Barthes – «regolano il dialogo tra le grandi sostanze archetipe della materia da un lato e i sensi del lettore dall’altro». (...) Sta qui l’attualità del pensiero di Barthes sulla pubblicità: nell’aver indicato questo valore profondo dell’immaginario pubblicitario dove il reale non è più il luogo di condivisioni culturali ma quello di una pura sussistenza delle sostanze. Il discorso pubblicitario, in questo caso, spezza il legame rappresentativo tra il soggetto umano e il mondo per lasciar emergere come unico protagonista il corpo che è insieme frammento di mondo e prospettiva su di esso, natura e cultura.