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 2010  marzo 21 Domenica calendario

«COMINCIO’ PER CASO. E DIVENNE SUBITO UN GIOCO MAGICO»

Napoli. Dicembre 1995. Piazza del Plebiscito è improvvisamente invasa da una montagna di sale. Tra i granelli cristallini alcuni cavalli in vetroresina sono come intrappolati, altri appoggiati su un fianco. Nel vicino Palazzo Reale si svolge una mostra di Mimmo Paladino, l’ autore con cui s’ è inaugurata la fortunata serie di installazioni d’ arte contemporanea. Maestro com’ è nata l’ idea di invadere lo spazio della piazza con un’ opera d’ arte? «Dal caso, come tutte le idee che lasciano un segno. Eduardo Cicelyn, che è un uomo dallo spirito inquieto, curava la mia personale a Palazzo Reale e volle mettere qualcosa sulla piazza. L’ unica soluzione che ci parve realizzabile era la "montagna di sale", che avevo usato anche per una scenografia a Gibellina con Elio De Capitani». Perché il sale? «Perché è materia magica, scaramantica, densa di significati simbolici». Napoli in quel momento con l’ arte voleva riscattarsi rispetto al passato? «Bassolino era sindaco e aveva liberato la piazza dalla macchine. Era poco prima di Natale. Pioveva tantissimo, ma riuscimmo a trovare una ditta che in meno di una settimana costruì l’ impalcatura e così i napoletani si ritrovarono di fronte a quest’ opera come per magia. Poi, dato che piazza del Plebiscito è il luogo dei festeggiamenti per il Capodanno, abbiamo pensato che era un’ occasione unica per una grande festa pubblica. Ci volle un po’ a sciogliere le ritrosie di Nino D’ Angelo che soffre di vertigini, ma poi scalò i 15 metri di sale e suonò per tutti. Per smontare la montagna abbiamo usato i fuochi d’ artificio, facendola esplodere: i napoletani, che fino a quel momento portavano via il sale di nascosto, si presero liberamente il loro sacchetto come gesto scaramantico». Non le diede fastidio che la sua installazione venisse trafugata granello dopo granello? «Ma no. Rimasi colpito dall’ uso "civile" che tutti i napoletani avevano fatto dell’ opera. Vidi che aveva catturato la loro arguzia e la loro velocità teatrale e la gente l’ aveva fatta diventare una parte della città. Gli "scugnizzi" scalavano la montagna, i loro genitori giocavano con il sale e con i cavalli. Addirittura un latitante cercò di sfuggire alla polizia arrampicandosi fino in cima. Fu una sorta di adozione collettiva. Cultura alta e bassa si univano. Napoli in quel momento viveva una stagione euforica, nel cinema, nella musica e nell’ arte, sperava di svegliarsi dal suo passato tragico per trovare una continuità. Per questo indicai Kounellis come artista per l’ installazione successiva. Lui scelse di ritirarsi sotto il portico in una processione di mobili. Era maggio, il mese in cui a Napoli si fanno i traslochi, e la gente lesse quelle opere con la saggezza che viene dalla cultura popolare, fatta di grande acume e priva di luoghi comuni». Quale altra installazione ricorda per l’ efficacia del dialogo con la città? «Quella di Rebecca Horn. Usò i teschi, le "capuzzelle", perché aveva capito l’ importanza di quel simbolo nella cultura napoletana come oggetto di culto. Napoli capiva l’ arte contemporanea, ma l’ arte contemporanea capiva Napoli». Qual è l’ eredità di oggi? «Quindici anni sono lunghi e le città alternano momenti belli e altri che lo sono di meno; ma la città è ancora ricettiva».
Rachele Ferrario