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 2010  marzo 25 Giovedì calendario

ARRIVA IL DIVORZIO ALL’EUROPEA

Che succede se Lorenzo e Rose, un italiano e un’inglese che vivono a Parigi, decidono di divorziare? Succede che si sa dove comincia il loro incubo e non si ha alcuna certezza di come, e quando, finirà. Perché oltretutto si sono sposati a Roma e uno dei due coniugi potrebbe chiedere di regolare il triste epilogo secondo le leggi della penisola, persuaso da un qualche avvocato che siano più convenienti dal suo punto di vista. Oppure lei potrebbe cercare di far valere il diritto della madre patria britannica, mentre lui potrebbe appellarsi alla legge francese in base alla clausola del paese di residenza.
Ognuno programmerebbe insomma il suo «shopping normativo» per condurre la guerra all’ex amato, scatenando un conflitto in cui la parte più debole, e i figli, di solito finiscono per aver la peggio.
«Per le coppie internazionali che si sciolgono la vita può diventare un vero inferno», riassume Viviane Reding, commissario Ue per la Giustizia e i diritti fondamentali, che ieri ha messo sul tavolo una proposta che dovrebbe risolvere l’annoso problema. Attualmente venti Paesi dell’Unione determinano la legge applicabile in caso di separazione affidandosi ad una serie di criteri di collegamento, come la cittadinanza e la residenza abituale. I rimanenti (Danimarca, Lettonia, Irlanda, Cipro, Finlandia, Svezia e Regno Unito) tagliano invece corto chiedendo l’applicazione della disciplina nazionale indipendentemente dalle origini della coppia che si sfalda. Sono norme spesso divergenti che, sostiene Bruxelles, «complicano la situazione dal punto di vista giuridico e aggravano i costi, rendendo difficili i divorzi consensuali».
Così s’è deciso di correre ai ripari. Per la seconda volta, va detto, visto che la Commissione Ue ci ha già provato nel 2006, fallendo per mancanza di intesa su un passo che richiede l’unanimità del voto. Adesso la Reding ci riprova sfruttando il potenziale della cooperazione rafforzata, dunque consentendo a un gruppo di stati (dieci, fra cui Italia, Francia, e Spagna, ma non Germania) di darsi una cornice comune e fare da lepre, sperando che gli altri ne imitino l’esempio. I numeri lo richiedono. Ogni anno si celebrano 300 mila matrimoni misti, ma si consumano anche 140 mila divorzi fra mogli e mariti «cross-border».
La Commissione propone due livelli di azione. Il primo caso è quello delle coppie che trovano un’intesa sulla determinazione della legge applicabile: ad esempio, in caso di intesa, una coppia austro-svedese residente in Italia potrà chiedere di applicare la legge austriaca o svedese. Qualora manchi l’accordo fra le parti, le autorità giurisdizionali avranno a disposizione di una formula comune per aggirare gli ostacoli, secondo una serie di approssimazioni successive: legge del Paese di residenza; oppure ultimo luogo di residenza se uno dei due vi abita ancora; o ancora la legge comune dei due sposi se abitano all’estero; o fine la legge del tribunale a cui i due decidono di adire.
«In questo modo non si cambia la legge nazionale, ma si crea un modo per coordinarla», assicura la Reding, felice di essere la prima ad applicare il «cooperazione rafforzata» per sbloccare il dossier. E’ un compito che, pur essendo di centrodestra, assolve con una visione decisamente laica. «Stiamo compiendo un atto molto cristiano - assicura -, questo provvedimento aiuta chi è più debole. Non credo che il mondo cattolica possa prendersela per questo». Il provvedimento deve passare in Consiglio, dove bastano dieci «si». Serve anche il consenso di Strasburgo. Approvazione prevista entro l’anno.