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 2010  marzo 24 Mercoledì calendario

L’AMERICA CHE ODIA WALL STREET

Sembrava quasi dimenticata. Lo tsunami di licenziamenti e difficoltà seguito alla crisi del 2007 sembrava aver dato a Wall Street il beneficio di almeno un attimo di riposo dalla rabbia della pubblica opinione. Guerre, disoccupazione, riforma dell’assistenza medica sembravano aver spinto il Quartier Generale del Denaro in fondo alla lista degli interessi dei cittadini.
Ma sotto sotto la rabbia contro la grande finanza ha continuato a scavare nella percezione degli americani, costituendo una fertile base per un clima antisistema, in un Paese che è da sempre incline al rifiuto di grandi ingerenze. Grazie a una serie di rivelazioni, libri, iniziative, e passaggi politici - fra i quali innanzitutto la presentazione al Senato della nuova legge sulle regole - Wall Street sta ritornando alla grande sotto attacco.
Di come la grande crisi abbia scavato un fossato nella psiche americana si è occupato la scorsa settimana il Los Angeles Times. Nulla di psicologico: in realtà l’articolo era dedicato ai mutui. Ma, essendo la bolla edilizia la miccia che ha acceso la crisi, c’è molto da capire dai comportamenti di coloro che hanno un prestito sul collo in Usa.
La storia è questa - ed è una storia tutta nuova -: circa 11 milioni di mutui, cioè un quarto del totale, è «under water», sott’acqua; vale a dire che sono stati utilizzati per comprare case il cui valore è oggi sotto il prezzo che avevano al momento dell’acquisto. Con buona probabilità di non tornare più a quel livello. Dalla crisi del 2007 il prezzo medio delle case in America è in parte risalito, ma è rimasto ampiamente al di sotto del picco che aveva toccato prima.

Nulla di nuovo, dunque nella sofferenza del settore. Molto di nuovo invece da segnalare sul comportamento di coloro che hanno contratto questi mutui. Invece di continuare a nuotare «under water», molti cittadini che pure sono in grado di pagare, preferiscono oggi semplicemente lasciare la casa e liberarsi del pagamento. Preferendo nuovi acquisti o nuovi affitti, che la crisi ha reso disponibili a minor costo. In gergo, queste decisioni sono state battezzate «strategic defaults», per distinguerli dai fallimenti obbligati. E le perdite? Le perdite tornano alle banche, e in parte alla comunità dal momento che lo Stato con i soldi delle tasse ha salvato le banche.
Il fenomeno ha già raggiunto una consistenza tale da essere rilevato dal sistema. Per inciso, è un professore italiano, Luigi Zingales, della Booth School of Business dell’Università di Chicago, a seguirne lo sviluppo, che a dicembre costituiva il 35 per cento del totale dei fallimenti, rispetto al 23 per cento del marzo 2009. Il timore è che questo atteggiamento cresca al punto da avere un impatto sulla ripresina del settore.
Ma al di là degli effetti economici, è l’indicatore morale che lampeggia rosso in questa tendenza. Questo comportamento è del tutto nuovo in un Paese dove la capacità di mantenere il proprio livello di vita e i propri impegni economici ha sempre costituito parte essenziale dell’onorabilità pubblica e privata della persona. « il segno di una crescente rabbia, una crescente consapevolezza che esiste un doppio standard in base al quale le banche sono state salvate e i cittadini invece devono rispettare i loro impegni», secondo Brent T. White, professore di Giurisprudenza alla University of Arizona che ha scritto un saggio sul fenomeno.
Dal default economico, al default etico? questa una possibile conseguenza di questi anni di crisi? Sono un po’ le domande che si pongono oggi sul tavolo della politica. D’altra parte, non farsi prendere dal menefreghismo, se non addirittura dal cinismo, è un po’ difficile di fronte al permanente malcostume degli ambienti finanziari. Alle notizie sui dividendi che continuano ad essere distribuiti a dispetto della crisi, si è aggiunta la settimana scorsa la conclusione dell’indagine sulla «madre» di tutti i fallimenti, quello di Lehman Brothers Holding Inc., il cui collasso il 15 settembre costituì l’inizio della fine per molti.
L’inchiesta, ordinata dalla Corte Federale di Manhattan, sulla bancarotta di Lehman Brothers Holding Inc., e istruita da Anton Valukas, spiega in 2200 pagine una verità che si traduce in una riga: i top manager di Lehman sapevano della bancarotta e, invece di avvertire, si impegnarono in una manovra illegale per muovere 50 milioni di dollari, al fine di continuare a truccare i bilanci, dimostrando una liquidità che non avevano. Secondo Anton Valukas, i capi della Lehman «sapevano già il 2 settembre», cioè due settimane prima della crisi, della loro insolvenza. In almeno un caso la consapevolezza arriva ben prima: «In una occasione - scrive Valukas - nel maggio del 2008, un vicepresidente della Lehman avvertì i dirigenti di potenziali irregolarità, ma il rapporto fu ignorato dalla società di revisori Ernst & Young». Interessante è anche capire la manovra illegale messa in atto: la Lehman vendette 50 milioni di pacchetti azionari in cambio di denaro liquido, con impegno a ricomprare più tardi gli asset. Un regolare e legale accordo, che però venne registrato come vendita, in modo da poter contabilizzare la liquidità. Partners in questa manovra furono due grandi banche, JP Morgan Chase & Co. e Citigroup Inc. Sapevano, dunque, tutto a Wall Street. E hanno continuato fino all’ultimo a fiancheggiarsi a vicenda.
All’oltraggio generale causato da questo rapporto - ampiamente riportato nei media - si sono aggiunti altri fuochisti. uscito ad esempio l’ultimo libro di Michael Lewis, «The Big Short: Inside the Doomsday Machine» (Ed. Norton), in cui l’autore, scrittore già molto popolare di temi economici, esplora proprio il tema del «saper tutto prima». Peraltro facendo una serie di casi specifici di investitori e manager che avevano capito la caduta e che, proprio mentre il mercato si liquefaceva, hanno fatto fortuna per sé e per i propri clienti.
L’accumulazione di questo malumore contro il Big Business è destinata, ovviamente, a riversarsi tutta su Washington.
La legge per approvare un sistema di nuove regole per il mercato è stata approvata dalla commissione Finanza e passata al Senato proprio il giorno dopo l’approvazione della riforma sanitaria. Ma il modo come la proposta, firmata dal senatore democratico Chris Dodd, è passata in commissione è indicativo dell’umore con cui è stata accolta: le 1300 pagine di testo sono state votate in 21 minuti perché i repubblicani hanno deciso di non presentare nessuno dei 200 emendamenti che pure avevano preparato. Tanto per mettere bene in chiaro il loro assoluto rifiuto anche solo a discuterne. Del resto la leadership repubblicana si è già dichiarata per bocca del loro leader alla Camera, John Boehner, che, parlando all’American Bankers Association, ha promesso ai banchieri una netta opposizione alla legge sulle regole.
Si profila dunque per Obama uno scontro epocale con Wall Street? Sì e no. La risposta non è del tutto chiara. Visto l’umore che c’è in America e che abbiamo tentato di descrivere, è possibile che una forte presa di posizione da parte dello Stato contro la speculazione finanziaria e i grandi interessi economici non trasparenti abbia un ampio riscontro anche fra i repubblicani. Non è un caso che un idolo di questo tipo di opposizione, Glenn Beck, il Santoro americano, si sia sempre dichiarato nemico proprio di Wall Street.