ENRICO FRANCESCHINI , la Repubblica 23/3/2010, 23 marzo 2010
IMPRONTE
Da oltre un secolo è la prova inconfutabile di crimini e delitti: una scienza in realtà piuttosto complicata e arcana, che dapprima i romanzi gialli, poi il cinema e la televisione, hanno addomesticato facendola entrare nella psiche di tutti noi. Da Sherlock Holmes ai detective di "Csi", le impronte digitali sono la smoking gun, la pistola fumante che incastra assassini e delinquenti: se lasciano traccia dei polpastrelli su vittima, arma o luogo del delitto non servono altri indizi, il caso è chiuso. Eppure, più di cent´anni dopo il primo omicidio risolto grazie alle impronte, a Buenos Aires nel 1892, gli investigatori e i magistrati di mezzo mondo iniziano a convincersi che non si tratta di una scienza esatta. O meglio, che c´è bisogno di strumenti e valutazioni più scientifiche per verificare se all´impronta di un dito corrisponde una sola persona o no. E questi metodi sono finalmente pronti a entrare in funzione.
"Ogni essere umano porta con sé, dalla culla alla tomba, certe caratteristiche fisiche che non cambiano mai, attraverso le quali può essere sempre identificato, senza ombra di dubbio", scriveva il romanziere americano Mark Twain, che nel XIX secolo ebbe un ruolo chiave nel rendere popolare il nuovo metodo investigativo. E fino a non molto tempo fa tutti erano convinti che un´impronta digitale sulla scena di un crimine fosse una prova certa di colpevolezza. In anni recenti, tuttavia, una serie di errori clamorosi in sede giudiziaria hanno dimostrato che le impronte digitali possono incolpare la persona sbagliata. Nuovi studi hanno rivelato che analisti differenti possono arrivare a conclusioni differenti nel decidere se due impronte sono o non sono identiche, ossia se appartengono allo stesso individuo. E perfino un singolo analista, in circostanze diverse, può dare pareri diversi sulla stessa impronta. Lo sbaglio può essere causato da errori umani, coincidenze, scarsa qualità delle impronte. O una combinazione di fattori. Nel 2004, fuorviato dalle impronte digitali, l´Fbi indicò erroneamente Brandon Mayfield, un avvocato dell´Oregon, come uno dei sospetti nell´attentato terroristico di Madrid. Lo stesso anno, negli Usa, Stephen Cowars, condannato all´ergastolo sulla base delle impronte digitali, è stato scagionato grazie all´esame del Dna dopo avere già scontato sette anni di prigione. Nel 2006 è stato il turno di Shirley Mckie, una poliziotta scozzese risarcita di 740 mila sterline per essere stata ingiustamente collegata a un delitto a Glasgow. In effetti già nel 1993 la Corte Suprema americana stabilì che un "tasso di errore" doveva accompagnare ogni analisi del genere, ma il verdetto fu ignorato dai tribunali. Ora, dopo che l´Accademia Americana delle Scienze ha chiesto un riesame dei metodi di indagine, qualcosa si sta muovendo.
Esperimenti delle università di Birmingham e Southampton in Gran Bretagna, riporta il settimanale New Scientist, hanno condotto alla creazione di un software in grado di calcolare il "peso statistico" da dare a ciascuna impronta digitale per determinare quanto sia verosimile la sua esattezza, come avviene già per il Dna. L´Fbi sta studiando altri strumenti di analisi, basati su nuove tecnologie ancora segrete. Resta da vedere quanto ci vorrà perché questi metodi vengano resi obbligatori dappertutto. Ma l´atteggiamento degli esperti sta rapidamente mutando: il 75% degli studiosi del settore, in un sondaggio della West Virginia University, credono che innocenti siano in carcere a causa di errori nelle impronte digitali. Il rischio, dicono i detrattori dell´iniziativa, è che avvocati difensori utilizzino la consapevolezza della possibilità di errori per cercare di invalidare sempre le impronte digitali come prova. I sostenitori replicano che non c´è bisogno di screditare la vecchia scienza delle impronte digitali: basta renderla, finalmente, più scientifica.