SANDRO VIOLA, la Repubblica 23/3/201, 23 marzo 2010
UN VENTO FRAGILE
Chi s´era aspettato, come i leader dei gruppi d´opposizione, di vedere sabato scorso le piazze russe colme di manifestanti contro la politica del governo Putin, è rimasto deluso. I manifestanti erano infatti pochi, qualche migliaio tra la costa del Pacifico e il mar Baltico: in tutta la Russia, meno dei 12.000 che a gennaio erano scesi in strada nella sola Kaliningrad. E una cosa è certa: chi pensasse che la protesta crescerà nelle prossime settimane e mesi, chi sogna di vedere masse imponenti di russi dimostrare qua e là nel Paese al grido di "Putin, dimettiti", si sta preparando a nuove, cocenti delusioni. In Russia non si sta infatti preparando una rivolta arancione come quella ucraina del 2004. Primo, perché il consenso di cui godono nei sondaggi (sondaggi che si possono ritenere attendibili) Putin e il suo governo, tocca ancora il 65-70 per cento degli interpellati.
Secondo, perché il brivido più forte che il regime abbia provato nei suoi dieci anni di vita, fu proprio quello venuto dall´"orange revolution" in Ucraina. E da allora Putin e i suoi hanno preso tutte le precauzioni del caso. Aumento massiccio degli effettivi di polizia, acquisto all´estero dei più moderni mezzi antisommossa, nuove leggi per raddoppiare la sorveglianza sui finanziamenti che giungono dall´Occidente in Russia alle Ong (diritti umani, libertà di stampa ecc.), il danaro che fu essenziale per l´organizzazione della rivolta in Ucraina. Terzo, perché in Russia non esiste un movimento d´opposizione degno di questo nome. Ma soltanto piccoli gruppi, tra l´altro disuniti, che non farebbero ombra ad uno Stato democratico, e figuriamoci ad uno stato autoritario - per qualche verso, anzi, uno Stato di polizia - come quello costruito dagli ex ufficiali dei servizi segreti raccolti attorno a Vladimir Putin.
Certo, la crisi economica globale sta mordendo anche in Russia. La povertà che per qualche anno era stata dissimulata dalla crescita dei redditi nelle grandi città, torna adesso a galla (nelle campagne, nelle città che vivono d´una sola industria) in forme che ricordano la miseria sovietica. Ma se in Grecia o in Spagna i sindacati possono portare in strada la rabbia di centinaia di migliaia di persone, in Russia questo non può accadere. La storica apatia dei russi, e la paura del peggio (in un paese che per settant´anni ha conosciuto le massime privazioni di tutta l´Europa del Novecento), tendono ad escludere un largo e persistente movimento di protesta.
Il regime promette dunque di durare a lungo. La sua diarchia, le sue due teste (Putin e Medvedev), non sono in bilico, pericolanti. Anzi, ci sono segni che fanno pensare ad un loro sempre più robusto radicamento. Ultimo di questi segni, una dichiarazione fatta avant´ieri dal presidente della Duma, Boris Gryzlov, secondo il quale alle presidenziali del 2012 il tandem si riprodurrà sostanzialmente identico, con Putin presidente e Dmitrij Medvedev primo ministro. Nei prossimi anni saremo perciò allo stesso punto in cui siamo oggi. A chiederci quale sia la natura, l´effettivo funzionamento della diarchia moscovita. Medvedev un fantoccio manovrato dall´ex colonnello del Kgb Vladimir Putin, o un sincero liberale che crede alle riforme di cui parla, le riforme che dovrebbero condurre ad una Russia finalmente diversa?
Nessun imbarazzo, se non riusciamo a dare una risposta credibile a questa domanda. Da due anni, dall´elezione di Medvedev alla presidenza, centinaia di specialisti negli Stati Uniti e nel resto dell´Occidente si stanno arrovellando sull´argomento, e le loro conclusioni non potrebbero risultare più confuse e contraddittorie. Ieri un team di questi esperti dava infatti per certo che il presidente della Federazione russa è al Cremlino soltanto per fornire una facciata rispettabile al regime, oggi un altro team si dice sicuro che Medvedev non parla al vento, che i suoi progetti di riforme liberali, di lotta alla corruzione, sono autentici, e che presto se ne vedranno gli effetti.
Certo, il giovane e sorridente Medvedev fa discorsi che nessuno, se non dall´opposizione, si consentirebbe di fare. A settembre scorso, un suo lungo articolo "on line" denunciava un´economia russa ancora primitiva, tutta basata (il che è umiliante, diceva il presidente) sullo sfruttamento e commercio delle risorse di gas e petrolio, una vita pubblica devastata dalla corruzione, un calo demografico impressionante, un Transcaucaso esplosivo. E due mesi dopo, nel discorso sullo stato della Federazione, fu ancora più chiaro. Siamo a un bivio della nostra storia, disse: «Se non riusciremo a modernizzare la Russia, saremo per sempre una paese di second´ordine». Discorsi che Putin non ha mai fatto, discorsi che confondono le idee. Non è un caso che l´estate scorsa, durante la sua visita a Mosca, persino il presidente Obama credette di individuare in Medvedev "il vero leader della situazione".
Per uscire dalla confusione, può essere utile stabilire due o tre cose abbastanza semplici. La prima è che Putin agisce più di quanto non parli, e Medvedev fa il contrario. La seconda è il forte sospetto d´un gioco delle parti. L´uno, Putin, parla ai russi di basso reddito che dipendono dal governo per i loro salari e pensioni. Gente d´età media o già anziana, che guarda ogni sera la TV del regime, e con un residuo di nostalgie per l´Urss superpotenza. L´altro, Medvedev, parla invece ai russi di reddito medio-alto che vivono nelle grandi città, viaggiano, non guardano la TV ma usano Internet, e quindi sanno bene sino a che punto il paese sia ancora arretrato, sino a che punto una corruzione senza freni stia flagellando i tentativi dei liberi imprenditori.
E se il gioco delle parti è, come sembra al momento, la verità, la sola conclusione è che la diarchia è stata ben congegnata, è scaltramente gestita, e andrà avanti ancora per un bel pezzo.