Roberto Ricci, Gente, 30 marzo 2010, pag. 78, 30 marzo 2010
LA VITA A LUCI ROSSE ALLA CORTE DI STALIN
Roberto Ricci per Gente, 30 marzo 2010, pag. 78
Più archivi vengono aperti e più segreti di Stato decadono per decorrenza dei termini, meno bello e meno degno di essere rimpianto appare il tempo che l’umanità si è lasciata alle spalle. Anzitutto (parliamo degli anni Venti e Trenta del 1900), affiora un mondo lacerato da una guerra mondiale appena finita e
da un’altra che incombe; ma soprattutto sono i soprusi, la corruzione, la sistematica violenza sulle donne a rendere ostile il panorama.
In questi giorni, in seguito al ritrovamento di scottanti atti giudiziari e alla liberalizzazione di documenti segreti, le "rivelazioni" riguardano la Russia. Dagli archivi del Cremlino emerge (scegliamo a caso) la cricca dei sindacalisti che nel 1929 imperversava a Mosca. Alcuni di loro, fermati dopo una notte brava, raccontano in tribunale: «Erano le 2 quando siamo usciti dal ristorante e siamo andati in auto a caccia di prostitute. Due le abbiamo portate in ufficio». Domanda il giudice: «Ma perché in ufficio e non in albergo? Mosca è piena di bordelli a ore». E quelli, risentiti: «La nostra società è fondata sull’ubriacatura e sull’amore libero. Perché nascondersi? Fra noi ci scambiamo le donne, è così che stabilisce il nostro statuto».
Molto peggio fanno i funzionati statali iscritti alla "Bljadokhod", la Società del Puttanaggio. Lo si apprende dalle carte, ora rese pubbliche, di un’inchiesta condotta dal giudice Vycinskyij nella città di Uvat, in Siberia. Sotto esame sono otto uomini fra i 40 e i 50 anni, tutti sposati, il cui scopo è «costringere al rapporto sessuale il maggior numero possibile di donne».
Lo statuto della Società stabilisce quante donne gli iscritti possono "adoperare" ogni settimana, quante ne possono contagiare con malattie veneree e quanto possono attingere ai fondi dello Stato per curarle. Una banda di mostri, diremmo oggi, ma colpevoli di innocue ragazzate al confronto di ciò che succede al Cremlino, nelle stanze del potere dominate dalla sinistra figura di Josif Vissarionovic Dzngasvili detto Stalin, segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1924 al 1953. Al Cremlino i gerarchi dello "zar rosso" abitano con le mogli, i figli e le amanti. un chiuso e spaventoso mondo a sé, in cui la sera ci si ritrova per grandi cene al termine delle quali, gonfi di vodka, si canta, si balla e ci si accoppia (quelli che ancora ci riescono) sul pavimento dei saloni. "Lui", il capo, si limita a guardare perché, dice, il freddo patito in Siberia negli anni della clandestinità e della prigionia lo hanno handicappato bloccandogli un braccio.
In realtà Stalin passava in rassegna i presenti e faceva la conta: «Questo non è affidabile e deve morire; questo può andare: questo forse». A fine serata, il dittatore consegnava l’elenco dei condannati a Blokhin, il suo boia di fiducia, detentore di un raccapricciante primato: 7mila "traditori" uccisi, a uno a uno con un colpo di pistola, in 28 notti. Fuori, la città che ora sta aprendo gli archivi dell’orrore spiava il Cremlino, diciamo così, dal buco della serratura. Con discrezione e con prudenza, "perché era la prima volta", è stato scritto, "che gossip e vizi privati entravano nella storia dell’Unione Sovietica".
Stalin, 20 milioni di vittime in trent’anni di dittatura, si contraddice a ogni passo. Senza rimorsi ha disseminato figli nei luoghi in cui da terrorista è diventato capo della rivoluzione, e ora detta con ipocrisia regole moralistiche. «II nudo», dice all’inaugurazione della prima mostra fotografica dell’Arte del Movimento, autorizzata a Mosca nel 1925, «deve rappresentare il nuovo cittadino sovietico: bello, forte, giovane, sano. L’armonia delle forme esalta le conquiste del socialismo». Sono pressoché le stesse parole che Hitler pronuncerà alle Olimpiadi berlinesi del 1936, dopo la visita all’atelier di uno scultore che si ispira a giovani modelle nude per realizzare le statue decorative dello stadio. Il nudo, dunque, purché funzionale al modello sovietico di sviluppo, è accettato, ma poi lo "zar rosso" cambia idea. I nudi fotografici (gli stessi esposti ora a Milano, nella mostra Nudo per Stalin, allestita alla Fondazione Matalon fino al 30 marzo) non gli vanno più bene: sono «decadenti e borghesi». Così Aleksandr Grinberg, un fotografo che non si è adeguato alle sue nuove direttive (ma quali, esattamente?), è internato in un gulag, un campo di concentramento in Siberia. E lì non c’è scampo: "Al posto delle scarpe", ha scritto Alexandr Solgenicyn, l’autore di Arcipelago Gulag, "i prigionieri avevano brandelli di vecchi pneumatici tenuti insieme con il filo di ferro. Si lavorava all’esterno, a 40-50 gradi sottozero. Vietato accendere fuochi: in alcuni gulag i prigionieri erano stipati in piedi in baracche, talmente stretti fra loro da non poter muovere le braccia. Ogni tanto qualcuno moriva sull’attenti, senza nemmeno riuscire a cadere a terra".
In un gulag Stalin fece morire Alexandra, la sorella della prima moglie Ekaterina Svanidze, uccisa dal tifo nel 1906 dopo un anno di matrimonio, e un figlio, Jakov, destinato a finire i suoi giorni in un lager nazista. Jakov era sposato con una ballerina, Julia Meltzer, e da lei aveva avuto due figli. Nel 1941, quando i tedeschi lo fecero prigioniero, Stalin commentò così il fatto con la seconda moglie Nadia Alliluieva, che lo aveva sposato a 13 anni e forse era sua figlia: «Jakov non ha carattere, ho paura che possa collaborare con il nemico». Nadia cercò di convincerlo che questo non sarebbe avvenuto; lui, per tutta risposta, fece internare per due anni la nuora Julia Meltzer e i due nipoti nel carcere della Lubyanka, la tetra sede moscovita dei servizi segreti. Poi toccò anche a Nadia Alliluieva, dalla quale Stalin aveva avuto i figli Vasilij e Svetlana (quest’ultima stabilitasi negli Stati Uniti nel 1967). «Una sera Nadia», ha raccontato un figlio adottivo del dittatore allo storico inglese Simon Sebag Montefiore, «indossò un bel vestito nero, infilò una rosa scarlatta nei capelli corvini e si avvicinò sorridente al grande tavolo dove, nella ricorrenza del 15° anniversario della rivoluzione, si aspettava che le fosse stato riservato un posto accanto al marito». Macché. Quello si era seduto vicino a Galija Egorova, un’attrice moglie del comandante dell’Armata rossa, nota per la sua disinvoltura e le sue abissali scollature. Stalin faceva palline di mollica di pane e gliele tirava tra i seni; lei rideva entusiasta mentre il marito applaudiva i "centri" del capo. Nadia, umiliata, chiese ad Avel Enukidze, il segretario del Comitato centrale noto per le sue avventure sentimentali, di farla ballare. Seguì un valzer con molte lacrime negli occhi di lei, che quando la musica tacque se ne andò. La mattina seguente, rientrando dall’avere passato la notte con la Egorova, Stalin trovò la moglie priva di vita: si era sparata al cuore con una piccola pistola. «Qualcuno sapeva e non l’ha fermata», fu la frase con cui il tiranno, furente, condannò a dieci anni di carcere Anna, la sorella della moglie, e ne fece fucilare il marito.
Intanto la magistratura continuava la sua opera "moralizzatrice". Il giudice Vycinskij, in particolare, appariva instancabile; fino a che nel 1935, come
raccontano i documenti ora disponibili, sventò un complotto per assassinare Stalin. "Il Cremlino è pieno di impiegati", scrisse, "ostili al governo sovietico. In gran parte li ha assunti Avel Enukidze, il quale dispone di beni di lusso irraggiungibili alle masse e compera donne di tutte le età che dopo un po’ gira agli amici". Altrettanto faceva, secondo il magistrato, anche Serghej Me-shki, il potente direttore dell’Intourist e di altri grandi consorzi statali, accusato di avere approfittato di almeno 300 sue impiegate. "Il peggiore di tutti", concludeva Vycinskij, "è però Boris Gonkun, un sedicente ex segretario di Lenin che ha reclutato negli orfanotrofi moscoviti più di 70 bambine fra i 10 e i 14 anni e le ha violentate".
Pedofilia. Anche nelle carte ora ritrovate riguardanti Stalin compare questa parola; ma si tratta di un’altra storia.