STEFANO MANCINI, La Stampa 22/3/2010, PAGINA 52, 22 marzo 2010
CALCIO E CAPOEIRA LA PACE ALLA BRASILIANA
All’inizio del 2004 Haiti è sull’orlo della guerra civile. Il presidente Aristide viene deposto, la popolazione è in rivolta. Povertà e gang criminali rendono la situazione fuori controllo. L’Onu autorizza una missione di pace a cui il Brasile, che si stava battendo per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, partecipa con il contingente più grande. Fini umanitari e interessi geopolitici si mescolano, ma non è facile venirne a capo. «Il popolo haitiano è orgoglioso - racconta il generale Augusto Heleno Pereira, alla guida della missione, brasiliano -. Ha ottenuto l’indipendenza duecento anni fa ed è stato la prima repubblica nera del mondo: difficile imporgli una presenza militare». Dal Brasile, Lula ne fa una questione fondamentale. Chiama l’alto ufficiale e gli dice: «Vi mando la Seleçao, organizzate una partita con la loro nazionale». Pereira fa presente i rischi, le difficoltà, l’impossibilità di garantire l’incolumità del pubblico, oltre che dei calciatori, ma si rende presto conto che non esistono margini di trattativa con il suo presidente. un ordine. I campioni del mondo del 2002, da Ronaldo in giù, dovranno scendere in campo nello stadio di Port-au-Prince. Lula stesso va ad Haiti per rendersi conto della situazione e piange di fronte a scene di povertà che fanno rabbrividire anche chi conosce le favelas di Rio o San Paolo: niente acqua, niente luce, pochissimo cibo. E scoppia a piangere.
La partita è fissata per il 19 agosto. «Il primo problema era trasportare i calciatori dall’aeroporto alla città - ricorda Pereira -. Li feci salire sui blindati, perché non avevo altri mezzi di trasporto». Il cordone di sicurezza salta: migliaia di persone assaltano pacificamente il convoglio e salgono sui mezzi militari per farsi firmare un autografo. Mancano i soldi per mangiare, eppure è un trionfo di magliette e bandiere giallo-oro. «Ho visto ragazzi correre per 15 chilometri a fianco dei carri armati - prosegue il racconto del generale -. E io ho sudato quanto loro, pensando a quello che sarebbe potuto succedere». E invece fila tutto liscio. Chi depone un’arma all’ingresso dello stadio entra gratis. Il risultato in campo è una formalità. Calcisticamente Haiti ha un unico momento di notorietà in Italia durante i Mondiali del 1974 in Germania, quando il centravanti Emmanuel Sanon interrompe dopo 1143 minuti l’imbattibilità di Dino Zoff. Gli azzurri vinceranno 3-1 (Rivera, autorete, Anastasi), ma passeranno il turno la Polonia e, per differenza reti, l’Argentina. Sanon torna in patria da eroe nazionale.
Trent’anni dopo il calcio regala 90 minuti di pace: il Brasile vince 6-0, tutti applaudono felici e contenti. La tregua si interrompe poche ore dopo, con la ripresa delle violenze nelle bidonville. Però l’esperimento ha funzionato. Lo sport come strumento per mantenere la pace, o per lo meno per stemperare le tensioni, diventa un format, ad Haiti e poi nelle altre aree che vedono impegnati i caschi blu. Accanto a caserme e scuole sorgono campi gioco, dove vengono organizzati tornei e partitelle. Contingenti e popolazione locale si sfidano, e un po’ alla volta si fidano l’uno dell’altra. Il momento di massima integrazione è la partita tra rappresentanti delle due gang più potenti di Port-au-Prince, che si conclude con un pareggio e, soprattutto, con la stretta di mano tra i protagonisti. Oltre al calcio, i soldati brasiliani esportano la capoeira, una forma di lotta a tempo di musica che all’inizio coinvolge soprattutto i bambini.
Il 12 gennaio 2010 la situazione precipita assieme alle case, alle scuole, agli ospedali. Pereira allarga le braccia: «Sei anni di impegno e di lavoro sono stati cancellati dal terremoto. Migliaia di carcerati sono evasi. Non siamo tornati a zero: siamo a meno 1». Di quell’esperienza resta tuttavia un punto fermo: lo sport può essere un valido strumento di peace-keeping. Il generale brasiliano ne ha parlato sabato ad Aosta durante il convegno «Sport e pace» che ha preceduto l’inaugurazione dei Campionati mondiali militari invernali. Non è la politica del ping-pong che sciolse i rapporti diplomatici tra Cina e Usa negli Anni Settanta, ma un progetto più minimalista.
«In fondo questo è l’insegnamento di don Bosco: realizzare dei campetti e farci giocare i ragazzini». Mario Pescante, vicepresidente del Cio, riferisce dell’esperienza italiana a Kabul: «Ospedali e strade vengono prima come importanza, però se a un adolescente offri uno spazio per giocare e un animatore, puoi mettere in campo squadre miste per etnie e religioni, educando al rispetto e alla tolleranza. straordinario vedere soldati con fucile e munizioni che dieci minuti dopo giocano tranquilli in calzoncini e maglietta». Il contingente italiano ha portato un po’ di calcio a Kabul, ricostruendo uno stadio in cui i talebani avevano scavato quattro buche per le lapidazioni e promuovendo una partita contro una selezione locale, malgrado la disapprovazione dei generali americani.
Organizzatore dei Mondiali militari è il Cism, equivalente del Cio per gli atleti in divisa, di cui è presidente un generale italiano, Gianni Gola. «Non possiamo permetterci di essere naif e affermare che lo sport ferma la guerra - dice Gola -. Ma se nell’antichità con la tregua olimpica si avevano 60 giorni di pace, possiamo averla per sempre migliorando il dialogo tra i popoli». Il Cism sta aprendo in aree politicamente strategiche i «Centri regionali di sviluppo», dove il Paese ospitante organizza corsi per allenatori aperti agli Stati vicini. I primi sono sorti a Rio de Janeiro (pallavolo) e Nairobi (atletica), il prossimo potrebbe essere in Iran. Quale sport può insegnare l’Iran? «Pochi lo sanno, ma sono fortissimi nella pallavolo - racconta Gola -. Nel 2009 hanno partecipato dopo 17 anni ai mondiali militari in Brasile. E li hanno vinti in finale proprio contro i brasiliani». L’Iran finirebbe per insegnare il volley a iracheni, pachistani, indiani. Una piccola missione di pace.