VALERIO MACCARI, la Repubblica Affari & Finanza 22/3/201, 23 marzo 2010
ADDIO "PEAK OIL", L’ORA DELLO "SHALE"
Dimenticate il "peak oil", la fine del petrolio vaticinata da tanti autori: con le nuove tecnologie si può arrivare a estrarre greggio e gas naturali a profondità inusitate. Le valutazioni sono straordinarie: miliardi e miliardi di metri cubi di gas e petrolio sono ora raggiungili ed estraibili, in tutti i continenti, Europa compresa. I grandi gruppi petroliferi sono tutti impegnatissimi, e altrettanto le società fornitrici delle tecnologie da Siemens a General Electric. La parola d’ordine di questa nuova corsa all’oro nero è shale. Significa "scisto": una roccia argillosa dalla particolare struttura a lastre che imprigiona al suo interno petrolio o gas naturali. Le proprietà energetiche dello shale sono note da decenni. Ma fino a pochi anni fa, estrarre petrolio o gas da queste rocce era considerato economicamente insostenibile, a causa delle enormi difficoltà tecniche legate al processo di estrazione, che richiedeva la frattura di chilometri di rocce a grandissime profondità.
Per questo, gli idrocarburi ricavati dagli shale sono considerati "non convenzionali": un’espressione con cui si indicano le risorse energetiche il cui sfruttamento è teoricamente possibile ma praticamente improbabile, come gli oli pesanti e le sabbie bituminose.
Ma grazie all’introduzione di nuove tecnologie di estrazione, negli ultimi anni l’accesso alle riserve contenute negli shale è diventato più facile e conveniente, soprattutto nel caso del gas ma anche del petrolio. Per l’Europa, la new entry più interessante, è di shale gas che il continente sembra essere ricchissimo: secondo uno studio del National Petroleum Council britannico, nell’Europa centrale ed orientale ci sono riserve di gas equivalenti a 92 miliardi di barili di petrolio, uno dei più grandi hot spot del pianeta. La speranza delle major petrolifere – e dei governi europei – è che intorno a questi possibili giacimenti fiorisca una nuova industria energetica, sulla scia di quanto accaduto negli ultimi tre anni negli Stati Uniti. Dove, complice il relativo aumento del prezzo del gas e l’ammistrazione Obama, che ha riconosciuto i pericoli connessi alla produzione di etanolo dal mais, una decina di compagnie petrolifere indipendenti ha cercato di rendere economicamente sostenibile l’estrazione dello shale gas degli Appalachi e del Texas. Piccole realtà come QuickSilver, Canyon Services, XTO Energy, Forest Oil e Cheasapeake Energy che, grazie all’introduzione di un nuovo processo di frattura idraulica "multiplo", sono riuscite nell’opera e hanno reso accessibili le enormi riserve di shale gas degli Usa, equivalenti a circa 100 miliardi di barili di petrolio.
Grazie a questa inaspettato sviluppo tecnologico, gli Stati Uniti hanno potuto ridurre le importazioni di gas dalla Russia e puntare sullo shale gas, che raggiungerà il 50% della produzione totale interna già nel 2020.
Il mondo delle major petrolifere, ovviamente, non è rimasto guardare. E ha iniziato ad interessarsi al fenomeno shale nonostante l’aumentata autonomia degli Usa, primo paese per consumo, abbia fatto scendere il prezzo del gas.
La prima a muoversi è stata l’americana ExxonMobil, che per acquisire il knowhow tecnologico necessario allo sfruttamento dello shale già dal 2007 ha cominciato una campagna di partecipazioni in joint venture con le indipendenti, culminata a dicembre scorso nell’acquisizione della Xto con uno stockdeal dal valore di 41 miliardi di dollari.
La rivoluzione – come la chiamano già negli Stati Uniti – ha attratto anche la General Electric, interessata anche a fornire tutte le strutture tecnologiche necessarie all’estrazione e alla trasformazione del gas degli scisti. La Ge ha acquisito per 137 milioni di dollari, a gennaio di quest’anno, le riserve shale del North Dakota: all’estrazione parteciperanno le americane Sequel Energy LLC e Canyon Services, le società che hanno inventato il processo di frattura idraulico multiplo.
Le major europee hanno seguito a breve distanza: nel corso degli ultimi due anni, Shell, BP e Total e Statoil hanno acquistato partecipazioni nelle operazioni di Cheasepeake e Forest Oil e hanno contemporaneamente iniziato ad esplorare le risorse europee in Polonia, in Germania e nella Svezia meridionale. Anche l’Eni ha firmato un’alleanza strategica con Quicksilver Resources Inc. per l’acquisizione di una quota del 27,5% nella ricca area di estrazione "Alliance", nel Texas settentrionale.
L’obiettivo comune delle major è di utilizzare le conoscenze acquisite con le partecipazioni, anche al di fuori degli Stati Uniti, in vista di un nuovo probabile aumento del consumo di gas in Europa. "Nel prossimo decennio – ha spiegato a tal proposito l’Amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni la scena dell’energia mondiale sarà sempre più dominata dal consumo e dall’offerta di gas. Per questo dobbiamo essere sicuri di investire nel gas non convenzionale dentro e fuori gli Stati Uniti".
I primi centri di estrazione europea dovrebbero diventare attivi nel 2020 in Polonia e nella Svezia meridionale. Ma nonostante le grandi aspettative, c’è chi teme che trapiantare l’esperienza americana dello shale in Europa potrebbe essere molto difficile.
A preoccupare gli executives dell’energia è la possibilità di stop legati al rischio ambientale del processo di frattura idraulica multipla. Questa tecnologia infatti utilizza grandi quantità di nitrogeno e acqua per creare la pressione necessaria a fratturare le rocce; alla fine del procedimento, l’acqua contaminata può inquinare le faglie acquifere naturali. Un rischio relativo per gli Stati Uniti, meno densamente popolati dell’Europa. Ma per il vecchio continente, in possesso di una legislazione più severa in fatto di protezione ambientale, potrebbe essere un ostacolo insormontabile.