Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 22/03/2010, 22 marzo 2010
UN SOLDATO DI VITTORIO VENETO NELLA BUFERA DELL’8 SETTEMBRE
Si parla spesso dell’8 settembre 1943 e dell’armistizio. Non si sente citare il maresciallo Enrico Caviglia che credo abbia avuto un ruolo importante nella gestione della Città aperta di Roma, forse fino all’arrivo degli Alleati il 4 giugno 1944. Nel vuoto politico, seguito alla partenza del re e di Badoglio, credo che Caviglia fosse diventato il maggiore protagonista italiano nella città ormai in balia dei tedeschi. So che ha scritto un libro di memorie. Potrebbe darci notizie più precise?
Mario De Palma, Genova
Caro De Palma, il diario del maresciallo Caviglia fu pubblicato nel 1952 dall’editore Gherardo Casini di Roma ed è riapparso qualche anno fa presso l’editore Mursia di Milano. Copre vent’anni, dall’aprile del 1925 al marzo 1945, ma nei giorni cruciali dell’armistizio, fra l’8 e il 14 settembre, Caviglia smise di annotare giorno per giorno gli eventi di cui era stato testimone e protagonista nelle ore precedenti. Su quel periodo esistono quindi 21 pagine, scritte verosimilmente in Liguria dove tornò il 15 settembre, e intitolate «Capitolazione». Ricordo che Caviglia era allora onorato da molti per la partecipazione alla battaglia di Vittorio Veneto, per la fermezza con cui aveva sloggiato D’Annunzio da Fiume nel dicembre 1920, per l’indipendenza e il carattere di cui aveva dato prova durante il regime fascista.
Non aveva incarichi e responsabilità, ma nella mattina del 9 settembre il vecchio maresciallo ( era nato nel 1862) corse da un comando all’altro per tentare dì incollare i pezzi di un apparato che si stava sfaldando. Incontrò generali privi d’istruzioni aggiornate, ministri e sottosegretari che Badoglio aveva «dimenticato» a Roma, ufficiali e impiegati solerti che continuavano a presidiare i loro uffici per amministrare gli affari correnti. Quando constatò che non esisteva un capo a cui tutti potessero fare riferimento, Caviglia cominciò a dare ordini con la naturalezza di un vecchio comandante, e tale fu riconosciuto da tutti coloro che incontrò in quei giorni. Mandò anche un telegramma al re, allora in navigazione verso Brindisi, con cui gli chiese di essere autorizzato ad «assumere il governo», ma non ricevette riscontro. Sembra che il re gli abbia risposto per il tramite della radio di un incrociatore: «V.E. è da me investito potere mantenere funzionamento governo durante temporanea assenza presidente consiglio ministri»; ma il messaggio non gli fu mai recapitato.
Il momento decisivo venne l’11 settembre, dopo i combattimenti di Porta San Paolo, quando il generale Calvi di Bergolo, comandante della Divisione Centauro, gli portò l’ultimatum con cui il generale Kesselring annunciava che avrebbe fatto saltare gli acquedotti di Roma e fatto bombardare la città da 700 aeroplani. Se Caviglia avesse accettato e dato ordine alle divisioni di disperdersi, i tedeschi avrebbero lasciato agli ufficiali l’onore delle armi, occupato alcuni palazzi romani fra cui quello dell’Eiar (la Rai di allora), ma trattenuto le loro truppe al di fuori della città. Caviglia calcolò che gli aeroplani tedeschi sarebbero stati tutt’al più 70, ma sufficienti per infliggere alla città gravissimi danni. «Non restava – scrisse – che chinare la testa». Nella stanza accanto lo aspettavano quattro esponenti dell’antifascismo: Ivanoe Bonomi, Alessandro Casati, Meuccio Ruini, Leopoldo Piccardi. Caviglia descrisse l’ultimatum e chiese «Che cosa avreste fatto?». Tutti risposero: «Avremmo accettato» e il maresciallo disse «E così ho fatto io». Il 14 settembre annunciò ai suoi ufficiali che avrebbe lasciato Roma il giorno dopo: «Io prevedo che Hitler rimetterà Mussolini a capo dell’Italia. Se io restassi a Roma, al governo, sarei messo da parte con disdoro». Continuò a scrivere il suo diario e morì il 22 marzo 1945, un mese prima della fine della guerra.
Sergio Romano