Pio D’Emilia, L’espresso 25/3/2010, 25 marzo 2010
2010 ODISSEA A TOYOTA CITY
(con scheda) -
L’anno scorso, per aver parlato con un giornalista, ho passato più di un guaio: quindi questa volta niente nomi. A quanto ammontano le tasse della Toyota? Esattamente non lo so. Posso solo dire che il gettito fiscale proveniente dalle aziende è stato di 44 miliardi di yen (40 milioni di euro) nel 2009 e quest’anno sarà attorno al miliardo e mezzo (un milione e mezzo di euro). Una catastrofe. Altro che Detroit. Il bilancio della città viene fatto sulla base delle previsioni di andamento della Toyota e così dovremo bloccare tutte le opere pubbliche in corso. Ma ricordi che io non le ho detto niente... Non siamo in una centrale nucleare iraniana, e nemmeno in un gulag nord-coreano. Ma all’ufficio imposte dirette di Toyota, la cittadina al centro del Giappone che 50 anni fa (e forse c’è chi se ne sta pentendo) ha rinuncianto all’antico nome di Koromo (una sorta di abito talare da cerimonia) per assumere quello di un’azienda che, passando dai telai per cucire ai motori, si era messa in testa di conquistare il mondo. In parte c’è riuscita.
Fino a un paio di anni fa, la Toyota è stata, con la Sony (anch’essa in profonda crisi), il simbolo del made in Japan, della qualità assoluta, del geniale just in time, dell’assistenza eterna e impeccabile: To.To.To. (today, tomorrow, toyota) era, e continua a essere, lo slogan dell’azienda. Ai piani alti, diffuso solo tra i dirigenti, ne circola un altro, mutuato da un antico proverbio locale: anche un asciugamano asciutto va strizzato. Profitto, innanzitutto. Profitto a ogni costo. L’ha ammesso, quasi tra le lacrime, il presidente Akio Toyoda, durante la drammatica udienza davanti alla Commissione d’inchiesta del Congresso Usa (trasmessa in diretta tv negli Stati Uniti, mentre in Giappone andavano in onda le modeste prestazioni della squadra femminile di curling). "Nel cercare di ingrandirci sempre di più", ha ammesso il pronipote di Sakiichi Toyota, fondatore dell’impero, "abbiamo perso di vista le priorità che sono sempre state simbolo dell’azienda: qualità e sicurezza". I media americani, che non perdono occasione per dare addosso al Giappone, soprattutto ora che il nuovo governo democratico cerca di svincolarsi dall’asfissiante abbraccio che dal dopoguerra in poi ha seriamente limitato la sovranità del Paese, non l’hanno presa bene. L’autorevole ’New York Times’ ha addirittura ipotizzato l’incriminazione di Toyoda e di altri dirigenti per omicidio colposo e omesso controllo.
Dalle stelle alle stalle. Da prima della classe a oggetto di barzellette. Fino all’ultimo, tragico segnale. Il ritrovamento, venerdì 12 marzo, di un cadavere in una Prius nuova di zecca. L’operaio che l’aveva ultimata alla catena di montaggio ci si è nascosto dentro e si è suicidato. La Toyota, che nel 2008 aveva superato la General Motors, diventando la prima azienda automobilistica del mondo, è da sempre, quanto a profitti, al primo posto assoluto in Giappone, e fino a due anni fa era quarta nel mondo dopo le grandi aziende petrolifere, come la Exxon , la Shell e la BP. Prima assoluta, dunque, nel settore manufatturiero. Come ha fatto? "Ha inventato, e implementato con estrema efficacia, il sistema più avanzato di sfruttamento dei lavoratori. Del resto, basta vedere le cifre, che l’azienda non fornisce: negli ultimi trent’anni, i salari, in termini assoluti, sono appena triplicati, mentre i profitti crescevano di 30 volte. Il tutto diminuendo la mano d’opera e precarizzandone oltre la metà. Tutto calcolato, tutto pianificato. Ma ora il meccanismo si è inceppato e a farne le spese saranno gli operai, gli impiegati e tutti i cittadini. per questo che la Toyota deve essere additata a cattivo esempio. Non certo per le sue vetture, che restano di ottima qualità". A parlare così è Satoshi Kamata, giornalista scomodo, autore di apprezzati saggi sui fenomeni sociali più inquietanti del Giappone contemporaneo, dal bullismo che pare abbia colpito perfino la principessina Aiko, al drammatico aumento dei suicidi. L’anno scorso sono stati oltre 35 mila, uno ogni 15 minuti. Anche a Toyota City pare siano in aumento, ma ancora una volta il dato è riservato. Dopo una lunga attesa, in Comune dicono che non lo possono dare, ma allungano una copia di un articolo del ’Chunichi Shinbun’, il quotidiano locale, dove c’è abbondanza di statistiche.
Aumentano non solo i suicidi (21 in più rispetto all’anno precedente), ma anche i ricoveri in ospedali psichiatrici, gli incidenti stradali e i johatsusha (evaporati). In giapponese li chiamano così: sono quelli che escono di casa la mattina e spariscono. Qualcuno si suicida, molti cominciano a vagabondare per il paese, riemergendo, qualche volta, in un’altra città. E magari si ricordano della famiglia, mandando ogni tanto dei soldi. Ma la maggior parte sparisce per sempre, e per le famiglie sono guai: occorrono 15 anni per la dichiarazione di morte presunta e per aver diritto ai sussidi. "Meglio il suicidio", commenta amaro Kamata: "Moralmente per noi giapponesi è ineccepibile, anzi ammirevole, e la famiglia almeno incassa la polizza, visto che per ora le assicurazioni pagano anche in caso di suicidio. Ma vedrete, che pure questo cambierà". Esattamente trent’anni fa, Kamata si fece assumere come lavoratore stagionale alla Toyota. Un’esperienza per lui allucinante e che volle poi raccontare in un libro che scatenò il putiferio in Giappone (la Toyota chiese e ottenne, in primo grado, il sequestro, ma la Corte Suprema alla fine le diede torto): ’Toyota, fabbrica della disperazione’. "Tutto vero. E oggi è forse peggio", racconta Tadao Wakatsugi, leader di un sindacato autonomo della Toyota, " le condizioni di lavoro se possibile sono ancora più difficili, mentre il potere contrattuale degli operai non è mai stato così basso. E da quando il governo Koizumi ha esteso al settore manifatturiero, la possibilità di assumere mano d’opera a termine anche la qualità del prodotto ne risente. Se sai che verrai licenziato comunque, che non hai nessuna possibilità di far carriera, non ti impegni al massimo. Altro che spirito Toyota. morto da un pezzo".
Wakatsugi lavora alla fabbrica di Tsutsumi, quella dove qualche anno fa un operaio di 30 anni è stramazzato al suolo, morendo poi in ambulanza. Aveva accumulato, in un mese, oltre centro ore di straordinari, l’80 per cento dei quali non pagati. In pratica Kenichi Uchino lavorava sei settimane al mese, ma veniva pagato per quattro. Dopo una lunga battaglia legale, il tribunale ha ordinato alla Toyota di pagare un sostanzioso risarcimento alla famiglia. Pur nella sconfitta, l’azienda ha imposto la sua legge: divieto assoluto di pubblicizzare la cifra. Paura che altre vittime facciano causa? "Assolutamente sì", risponde Wakatsugi: "L’azienda è in forte crisi di immagine, prima che finanziaria. Con i profitti accumulati negli anni può permettersi di ammortizzare anche le enormi perdite che sta subendo. Ma il danno all’immagine è molto più grave e forse irreversibile. E non è più una questione che riguarda i mercati stranieri: anche in patria la gente non si fida più".
vero. L’azienda sta diventando oggetto di battute. L’autista di taxi della stazione di Toyota quasi si scusa della sua auto: "Non preoccupatevi, è una Prius, ma non fa parte del lotto richiamato. Tranquilli che questa frena". E giù un’inchiodata. Un giro della città dimostra che la crisi è nerissima. In giro non c’è nessuno: molti negozi hanno la saracinesca abbassata. Chiusi per crisi. I concessionari della Toyota si sono riuniti in consorzio e hanno lanciato una campagna promozionale senza precedenti per sostenere il commercio: a chiunque acquista un Toyota regalano un buono da 200 euro, da spendere in qualsiasi negozio della città. Ma è inutile. Anche gli autosaloni sono deserti, come bar e ristoranti. L’unico posto affollato è l’ufficio di collocamento, dal nome allegro: ’Hello work, Toyota’. Fino a qualche mese fa era vuoto: l’impero Toyota, per trovare mano d’opera, andava a cercarsela addirittura in Brasile e Perù, tra i discendenti dei primi emigrati giapponesi. Ora l’ufficio è pieno proprio di questa povera gente. Giapponesi d’aspetto, sudamericani di passaporto e cultura. E a differenza dei giapponesi, che anche e soprattutto nella sofferenza si chiudono in un silenzio spesso inspiegabile, neanche fosse colpa loro finire disoccupati, i nisei, come i media locali chiamano questi ’strani giapponesi’, non vedono l’ora di parlare.
Hideo Ogata, 35 anni, cittadino brasiliano. "Sono qui da tre anni, ho lavorato con impegno e onestà. Ora sono disoccupato, ma il sussidio per noi precari dura solo un mese per ogni anno lavorato. E poi? Non voglio tornare in Brasile: qui ho messo su famiglia. Ho un mutuo da pagare e due figli da mantenere, ma se non trovo lavoro, non mi rinnovano il visto". I nisei, a Toyota, erano oltre 16 mila. Sono rimasti in 5 mila. E l’esodo continua. Il governo ha trovato un crudele escamotage: offre il biglietto di ritorno a chiunque ne faccia richiesta. Ma in cambio chi riceve il sussidio deve firmare una dichiarazione nella quale si impegna a non mettere più piede in Giappone, nemmeno se gli offrono un altro contratto. "Una vera crudeltà", accusa Kamata, "un ricatto vergognoso che molti giustamente rifiutano, e che non risolve certo il problema dei disoccupati"."Non sappiamo come fare", spiega un funzionario dell’Ufficio collocamento: "Per far fronte alle domande, circa 10 mila al mese, abbiamo dovuto assumere del personale. Ovviamente precario, e che finirà per rimpolpare l’esercito dei disoccupati. un circolo vizioso, senza fine. E la situazione rischia di precipitare ulteriormente". "Il bello è che alla Toyota fanno finta di niente", spiega Kamata, "e continuano imperterriti a vendere un’immagine che non esiste più".
Kamata racconta della sua ultima visita a una fabbrica, mascherato da turista. "Due volte alla settimana la Toyota organizza visite guidate. Chiunque può partecipare, anche gli stranieri. Così sono entrato, dopo trent’anni, nella stessa fabbrica dove avevo lavorato. Niente foto. Niente domande. Ma a me è bastato. Ricordo che il funzionario continuava a ripetere il ritornello in base al quale alla Toyota i problemi non esistono perché vengono risolti prima che diventino tali. Non ce l’ho fatta a resistere, e davanti a tutti sono sbottato e ho chiesto se leggessero o meno i giornali. Nessuna reazione. Anzi. Gli altri turisti mi hanno guardato come un pazzo, e hanno tirato dritto". Quanto ai giornali, con i quali la Toyota è da sempre molto generosa in pubblicità, non è che dicano granchè. Del suicidio dell’operaio dentro la Prius solo poche righe nelle pagine interne dei principali quotidiani. E silenzio assoluto in tv.
GUAI AD ACCELERARE
A colpire non è il pur mostruoso numero di vetture richiamate - 8,5 milioni in tutto il mondo - per i problemi all’acceleratore e neppure che anche il gioiellino tecnologico Prius, madre di tutte le auto ibride, debba passare in offcina. No, quel che più ha impressionato opinione pubblica, clienti e osservatori del settore è stata la lentezza con cui la Toyota è corsa ai ripari. La casa nipponica, fresca del primato globale tra i costruttori, già dal 2007 era a conoscenza degli inconvenienti del pedale dell’acceleratore. Che, montato su ben otto modelli della marca (Aygo, Auris, Avensis, Corolla, iQ, Rav4, Yaris, Verso), si comportava in modo strano, indurendosi per colpa di alcune parti in nylon. Dopo i primi espisodi, al nylon è stato aggiunto il moplen, ottenendo però un risultato opposto all’obiettivo: con l’uso, il moplen faceva funzionare a scatti l’acceleratore. «A bassa temperatura, le superfici umide potevano anche incollarsi come due vetri, impedendo il movimento di ritorno del pedale. Ecco perché si è impropriamente parlato di bloccaggio», ha scritto Enrico De Vita su ”Auto”.
La soluzione dell’arcano è arrivata solo nel febbraio scorso, con una piastrina in acciaio infilata tra le due superfici per evitare ogni contatto. Ma ormai il danno economico (si parla di almeno 2,6 miliardi di dollari di costi vivi) e soprattutto d’immagine era stato provocato, oltre a parecchi incidenti , anche gravi, attribuibili all’inefficienza del pedale del gas. A peggiorare la situazione sono poi giunti i guai al software che governa l’Abs della Prius.
In Italia, le vetture soggette a richiamo sono 260 mila, oltre a 2.500 Prius. Ha detto il capo di Toyota Italia, Massimo Gargano: «Sono bastate 26 segnalazioni di lieve malfunzionamento per portarci a intervenire su 1,8 miloni di auto in Europa».