Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 21/03/2010, 21 marzo 2010
HO INVENTATO IL BLOG SENZA SAPERLO
Il più visionario e colto degli artisti contemporanei ha costruito una grande opera d’ arte ed è andato a viverci dentro. « il mio mandala», dice Luigi Serafini, aprendo al visitatore la porta su un’ infilata di stanze all’ ultimo piano di un palazzo alle spalle del Pantheon. L’ abitazione è qualcosa a metà tra un museo e un grande giocattolo, costruito con talento e ironia, pazienza e immaginazione sfrenata. Come tutta la sua produzione artistica, dalla pittura alla scultura, dal design alla ceramica. «Ci lavoro da oltre vent’ anni - racconta - e come nei mandala fatti dai monaci con la sabbia, che si cancellano e si riformano continuamente, non è mai finita. Ma può anche scomparire da un giorno all’ altro. Non ha una finalità pratica, è un esercizio spirituale». Nell’ ingresso, enormi gomitoli di lana corrono su gambe umane in scarpe da tennis. La stanza successiva è intitolata «Chasse Réservé»: vicino al soffitto, un’ altana ospita un cervo sopra un prato di erba secca. « di quelli usati dai cacciatori americani come richiamo. L’ ho trovato al mercato delle pulci di Torino». In un mercatino di Modena ha scovato un cervo più piccolo, alto appena una ventina di centimetri, ricoperto con la pelle di un cervo vero. «Proviene da Parigi, Rue de Bac, dove esiste ancora un famoso imbalsamatore». fabbricato in poliestere il Cervoluce, che spunta come un trofeo dalla parete, con le corna illuminate da una serie di lampadine. Serafini lo considera il suo animale totem. Lo ha disseminato in decine di quadri e sculture, per poi scoprire, quando di recente è andato in Cina, che il nome Luigi, scomposto in ideogrammi diventa LU (cervo) I (uno) GI (grande). Una delle tante coincidenze significative della sua vita. E si chiamava Cerva anche la via della Galleria Le Bureau des Esprit a Milano, dove aveva allestito nel 2001 una mostra con presepi un po’ blasfemi sotto campane di vetro, in cui protagonista era «l’ idea della mucca». Proseguendo il percorso dentro l’ appartamento-scultura si entra in un mondo sempre più fantasmagorico. Sopra un tavolo, immersi in un cono di luce, Teseo e il Minotauro ballano allacciati. «Teseo, arrivato al centro del Labirinto - spiega l’ artista, voce bassa e parole veloci - trova un Minotauro annoiato che ascolta un tango da un vecchio grammofono a manovella. L’ astuto greco lo invita a ballare e lui accetta felice perché "non timet Danaos et dona ferentes" (non teme i greci anche quando portano doni). E mentre il figlio di Minosse si abbandona languidamente alla danza, l’ altro lo pugnala alla schiena». Una vecchia sedia impagliata troneggia sopra il frigorifero. « il mio tributo ai Lari e ai Penati», spiega. Cioè? «Quella è la sedia di mia nonna, che abitava ad Amelia e la usava per sedere fuori dalla porta nelle sere d’ estate. Con lei avevo un rapporto particolare perché assecondava le mie fantasie. Mi accompagnava nei campi a cercare gli uccelli che cadevano dai nidi». Una gabbietta appesa alla parete del laboratorio suscita un altro ricordo: «Una volta, avevo sei anni, trovai un nido di cardellini sopra un albero troppo basso per non essere scalato dai gatti. Così, per salvare i pulcini, presi il nido, lo misi nella gabbia e appesi questa all’ albero, in modo che la madre potesse portare l’ imbeccata. Passai giornate intere ad osservare il via vai della cardellina. Una mattina gli uccelli erano spariti. Al loro posto, dentro la gabbietta c’ era una biscia arrotolata su se stessa, appisolata e con la pancia gonfia. Capii che si era mangiata i cardellini e non era più riuscita a passare tra le sbarre. Furibondo presi un coltello, le tagliai la testa e le aprii la pancia. Fui assalito da una zaffata immonda, i pulcini erano già stati attaccati dagli acidi della digestione». Gli raccontavano storie, che avrebbero segnato il suo immaginario: «Le patate che venivano piantate di notte in modo da riprodurre specularmente sotto la terra la mappa celeste, costellazioni e Via Lattea comprese. Il movimento degli astri le avrebbe trascinate di zolla in zolla disorientando le talpe furtive». Sulle pareti dipinte in rosso cremisi, giallo limone e azzurro elettrico, una collezione di dipinti con donne-carota che dormono nel bosco in mezzo a coniglietti bianchi, una carpa gigante con piedi umani infilati negli stivali, un «Apollo vincitore sul serpente Pitone Cerasuolo» con decine di braccia e ciliege rosse che gli pendono dal torace come gocce di sangue, un’ «altalena etrusca», dove dondola un trono in pietra scolpita. «L’ altalena è la grande metafora dello sconfinamento - dice - e siccome a me piace sconfinare ne ho costruita una tra Italia e Svizzera, in val Bregaglia, dove avevano chiuso i cancelli dopo gli accordi di Schengen». E ancora una serie di oggetti in continua metamorfosi, che sembrano usciti dal celeberrimo Codex Seraphinianus, l’ enciclopedia fantastica che Serafini iniziò a disegnare all’ improvviso una domenica di agosto del 1976. Andò avanti per trenta mesi, creando un intero universo popolato da uova volanti, alberi capovolti, uomini-tenaglie, zoologia vegetale. Il tutto accompagnato da lunghe didascalie scritte in una lingua indecifrabile, con caratteri arabeschi. Giorgio Soavi sostiene che è in realtà «perfettamente vera e leggibile, basta prenderla a piccole dosi, come si fa con i versetti della Bibbia». Il Codex affascinò, tra gli altri, Italo Calvino e Federico Zeri, che lo definì «un incanto eccentrico». Franco Maria Ricci lo pubblicò nel 1981, facendolo entrare nella leggenda degli universi paralleli. «Quando arrivai da lui con il mio enorme pacco di fogli - ricorda Serafini - mi sentivo come un salumiere esausto che gira con un prosciutto di marmo e cerca di venderlo a fette». Prima del Codex non aveva mai pensato di diventare artista. Laureato in Architettura, aveva aperto uno studio di una stanza e mezza vicino a piazza di Spagna: «Con un socio francese, molto snob ma senza un lira, che portava scarpe lucidissime e ambiva ad avere una borsa di studio a Villa Medici. Nell’ attesa, catturava ragnatele, le stendeva su fogli bianchi e le fissava con una vernice a spruzzo». Serafini cominciò a viaggiare: America, Oriente, Africa. Avventure di ogni genere, «compresa una condanna a morte a Brazzaville, dove giravo da solo con una piroga in mezzo alla guerra. Fui graziato perché mi misi a ridere talmente forte per l’ assurdità della situazione, che mi presero per matto e mi rimpatriarono». Sta preparando una mostra di foto: «1971. La scoperta dell’ America», su quel primo viaggio negli States, con sacco a pelo e rolleiflex. «Più che un viaggio fu uno shock culturale. Da una condizione di normalità borghese venni catapultato in un mondo che si muoveva caoticamente in mille direzioni e stimoli. Il senso della natura fortissimo. La possibilità di comunicare. Quando sono tornato, ho cominciato a pensare a una specie di libro che contenesse tutte quelle sensazioni. Il Codex è una sorta di blog, di derivato del mondo californiano, cioè della terra da cui stava nascendo internet. L’ ho capito dopo, il Codex era un po’ la crisalide di internet. E infatti la rete l’ ha fatto rinascere, con blog e siti in quaranta lingue, compreso il latino e l’ esperanto». Esiste addirittura il sito di un ex crittografo della marina militare americana, un certo Jim Marshall, che sostiene di aver trovato la chiave del Codex: digitando qualunque parola nella finestra interattiva compare la traduzione in lingua serafinica. Un canadese conferma invece ai suoi internauti che Luigi Serafini esiste veramente, abitava un tempo in Italia, ha molto viaggiato e probabilmente vive ancora oggi da qualche parte del pianeta. Un’ altra mostra si apre il 13 aprile alla Fondazione Mudima di Milano, con una settantina di foglie di alberi immaginari, alte più di un metro, come la Quercus Pedasina «che rimanda a Pedaso, luogo mitico delle Marche dove ho passato l’ infanzia». Sono le stesse foglie che ho disegnato nel libro d’ arte per le celebrazioni del sessantennale della Bur. Tra i mille volumi della collana ho scelto le Storie Naturali di Jules Renard, che sorprendono per l’ osservazione libera della natura e per la capacità ironica di giocare su diversi registri, dalla metafora alla descrizione quasi scientifica. Ho affiancato alle sue parole il mio controcanto botanico».
Lauretta Colonnelli