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 2010  marzo 21 Domenica calendario

E IL GAZOMETRO DIVENNE LA «RIVE GAUCHE» DEI ROMANI

«Papà l’ astronave!». Gli occhi del bambino s’ illuminarono di stupore quando, nella Notte Bianca romana, il Gazometro prese fuoco come un vulcano che all’ improvviso torna a ridestarsi da un lungo sonno pigro, squarciando satanico con i suoi zampilli di luce incandescente la nebbiolina notturna e la caligine che avvolgeva l’ Ostiense e il Testaccio. «Bentornato Nerone», sospirò il vetturino placando il suo cavallo ormai cotto di fatica. Una girandola di fiammelle che si rifletteva sulle acque lutulenti del Tevere dove, immobili, si specchiavano le sagome dei palazzoni popolari anni Venti. Contorni di agglomerati incombenti, che agli occhi del Pasolini borgataro apparivano soltanto «enormi tombe di famiglia». Nell’ oscurità, il fiume giallo era una lastra di piombo fusa dall’ intensa luce artificiale. Uno spettacolo di bagliori, riverberi e fuochi bianchi s’ offriva per la prima volta alla vista dei romani. La luccicanza misteriosa di quel «capriccio tecnologico» marxiano, nel senso di Karl Marx (e la sua teoria degli oggetti morti), spiegarono gli «sbrasoni» intellettuali, colpì soprattutto la fantasia del popolino «disallumito». E delle migliaia di forestieri coinvolti nella Notte del Duemilasei. Qualcuno, però, più grandicello, dall’ evento inatteso si aspettava un altro miracolo della suggestione: che dalla base aliena, planata misteriosamente («un enorme lampadario di forma opalescente», si legge nel racconto Una e una notte), spuntasse, beffarda, la sagoma del marziano di Ennio Flaiano. Kunt, l’ extraterrestre spernacchiato in strada una volta superata l’ iniziale sorpresa dei romani disincantati. Una trovata pagata da Flaiano con un memorabile fiasco teatrale. Ma la serata dal sapore futurista di quell’ 8 settembre - «scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!», avrebbe gridato un redivivo Marinetti -, non portò fortuna neppure a Veltroni. Che due anni dopo lasciò la poltrona di sindaco per sfidare alla guida del governo Berlusconi. Perdendo. Il vecchio Gazometro, ormai consacrato a simbolo di una Roma sospesa tra passato e presente senza perderne del tutto l’ identità - «l’ ingegnoso e straordinario adattamento di vecchi locali a nuovi usi», auspicato dall’ urbanista Jane Jacobs -, è visto come una piccola Torre Eiffel. Magari solo per la vocazione bohémien dei tanti estimatori della rive gauche del Tevere. O un petit Colosseo industriale. Almeno a dare ascolto al regista turco Ozpetek, che vive e lavora all’ Ostiense. «Mi basta fare due passi dalle parti del Gazometro per smaltire un’ arrabbiatura», ama ripetere l’ autore del film Le fate ignoranti. In cui il «mammozzone de fero», violentemente inciso nella tela anni Cinquanta di Vespignani, ne è una sorta d’ icona. Ma la producer Tilde Corsi si spinge oltre il gioco delle similitudini: «L’ Ostiense è la nuova downtown». Per la mescolanza tra vecchi residenti e nuovi abitanti, che ne alimentano l’ unicità. Un luogo-calamita, dunque. Che al sopraggiungere del buio attira con le sue luci invitanti il popolo della notte lunga. Un’ invasione caciarona e giovanile. All’ interno di un labirinto di strade non più vasto di un miglio quadrato si contano oltre venti disco-pub (Goa e l’ Alpheus, i più trendy) e centinaia di ritrovi: trattorie (dal mitico Checchino al tradizionale Perilli); cucine etniche; fiaschetterie; friggitorie e venditori di cornetti caldi. Kebab e rigatoni con la paijata. Non è forse il Meatpacking a Soho ad avere assimilato una trama urbanistica comune con la gens romana dell’ Ostiense? Anche lì, sulle sponde dell’ Hudson, c’ era una volta il mercato delle carni. Come al Monte Testaccio. L’ ex mattatoio (1928-1975), che ora ospita il Macro Future, la facoltà di Architettura Roma III e un centro sociale. «Ma non è Roma, è Testaccio, che brucia sotto il sole: con le fogne sotto terra, intasate di sangue e merda dell’ «Ammazzatore», annota Pasolini nelle sue storie burine. Lì, negli stessi stabilimenti di mattazione, dove nel ’ 93 - ricorda il transgender Vladimir Luxuria -, è cominciata l’ avventura di Muccassassina, con le sue serate trasgressive. Figlio del decentramento industriale e residenziale d’ inizio Novecento auspicato dal sindaco Nathan, il Gazometro è alto 89,10 metri, ha un diametro di 63 ed è composto di mille e 551 pali infissi. La sua nascita data nel ’ 37. La sua morte (apparente) è registrata tra gli anni 1963-65. Quando la Romana Gas di via Ostiense, che forniva l’ elettricità alla capitale, spense la fiammella giallognola e maleodorante che la teneva in vita. Un posto particolare e carico di vicende umane. Dai pionieri della società Anglo Romana ai cinesi che lavoravano alla canalizzazione dell’ aria infuocata nelle canne di bambù. Dalle avanguardie della resistenza al fascismo agli incontri di boxe post bellici nella «concalla» proletaria. Oggi l’ ex Centrale Montemartini (Eni) è sito archeologico industriale e museo. E ospita la fondazione Mattei. Il Gazometro è stato un piccolo grande amore anche per il cantautore Baglioni, laureatosi in Architettura con una tesi sulla sua riqualificazione. Per effetto, ricorda, di una giovanile malia: «Quando ero pischello mio padre mi disse che si trattava di un cilindro magico». Ma quando si evoca il Gazometro, geometria vivente, la voce magia è «pensiero risonante» (Calasso). Nel ’ 40 Carlo Emilio Gadda, romano di adozione, illustrava perché le opere della tecnica erano motivo d’ incantagione. E chissà se all’ Ingegnere in blu, che ora riposa vicino alle tombe di Gramsci e Keats al cimitero Acattolico (o degli Inglesi) proprio all’ ombra lunga del Gazometro e alla mezza luce della Piramide, sarebbe piaciuta la trasfigurazione di quella trottola gigantesca in un iridescente «opera d’ arte ambientale-temporale» (ideatore Angelo Bonelli), chiamata Luxometro. Un’ immensa scultura visiva, avviluppata da un serpentone di oltre dieci chilometri di fibra ottica e tempestata da un milione di lampadine. Già, gazometro e non gasometro. Che è il nome dato nell’ Ottocento dall’ ingegnere scozzese, William Murdoch, al serbatoio per immagazzinare il gas illuminante. Solo una bizzarria linguistica? Chissà. L’ architetto Le Corbusier detestava le k: «Il ponte di Brooklyn è colossale anche senza k». I romani da sempre hanno in uggia la s. E se non sibila, diceva il Belli, assume la soave pesantezza della z. Nel dopoguerra non fu soltanto Pasolini a essere affascinato dal sole rosso dei tramonti che dalla Marana, dove si tuffavano i suoi ragazzi di vita, andava a lacerare il «buio di topaia» che avvolgeva la zona del Gazometro. L’ inizio del film Il gobbo di Lizzani si svolge davanti a quella sorta di montagna russa dismessa. I due lustrascarpe smarriti di Sciuscià si aggirano sulla via Ostiense guidati per mano da De Sica. Il furto delle due cassette di frutta ai mercati generali, di fronte al Gazometro, si completa in Un giorno in Pretura di Steno. E l’ Accattone di Pasolini va a morire sul Ponte di Testaccio, congedandosi con un epitaffio beffardo: «Mo’ sto bbene!». Certi quartieri, diceva Garboli, appaiono «fatti d’ aria». E La storia di Elsa Morante è la cronaca ariosa del Testaccio. Con le sue colonne d’ Ercole, via Marmorata e porta S. Paolo, che il piccolo Useppe e la cagna Bella varcano timorosi per raggiungere l’ Ostiense. Ai bordi del Tevere dove si può «giocare ai pirati». Ancora oggi il passage fa riemergere i ricordi. Ma una volta giunti alla meta, il Gazometro, mai più illuminato, sembra perdere tutto il suo fascino onirico. Per assumere quella forma di «scheletro sopravvissuto a un incendio», fissata nel tempo dall’ occhio accigliato di Moravia.
Fernando Proietti