Marco Ventura, Corriere della Sera 21/03/2010, 21 marzo 2010
CARISSIMO NEMICO. PERCHE’ I CONFLITTI NON SONO MAI ETERNI
Il 22 marzo 1940, giusto settant’ anni fa, Ali Jinnah riunì sessantamila indiani musulmani a Lahore, sotto una gigantesca tenda. Una risoluzione invocò la nascita del futuro Pakistan, uno Stato indiano musulmano indipendente da inglesi e hindu. Hitler stava per invadere la Norvegia, i giapponesi imponevano un governo fantoccio a Nanchino. La guerra mondiale regolava i conti. Tra occidentali. Tra orientali. Tra occidentali e orientali. Si preparava il nostro mondo. La guerra era una giostra di alleati e nemici. Hitler e Stalin, Gandhi e Churchill. Anche in questo si preparava il nostro mondo, la nostra schizofrenia. Il nemico era assoluto, era il male; andava annientato perché non ti annientasse. Ma era anche tremendamente relativo. Il nemico era anche un ex alleato, un futuro alleato. Quante volte si è ripetuto lo schema, in questi settant’ anni. Chi è il nemico, oggi? E soprattutto, lo annienteremo, ci annienterà? O ci faremo pace? C’è chi crede in una risposta assoluta, nel ripetersi del copione, nel destino. Per cui il nemico è sempre lo stesso, oltre la storia. E c’ è chi crede nella responsabilità della storia, nei cambiamenti della storia. Oggi come nell’India britannica di settant’ anni fa, il bivio è lo stesso. Sentirsi responsabili del nemico, di combatterlo o di parlargli. O ritenerlo assoluto, immutabile, e paralizzarsi. Credere in un Dio che ha già scritto. O credere in un Dio che ti ispira a scrivere. Settant’ anni fa Gandhi era certo della vittoria dell’ Asse. Nel 1941 aveva scritto al «genio» Hitler, esaltandone «il coraggio e la devozione alla patria» e assicurandogli di non ritenerlo «quel mostro che i vostri avversari vogliono far credere». Cadute Singapore e la Birmania, il Giappone era alle porte. Gli inglesi parevano sconfitti. L’ 8 agosto 1942, Gandhi ringraziò il Congresso nazionale indiano per avergli approvato la mozione «Quit India». Fuori i britannici dall’ India. Senza condizioni, senza negoziato. «Vi consegno un mantra», disse ai delegati, «che imprimerete nei cuori ed esprimerete a ogni respiro». Rubò agli inglesi il grido «combattere e morire» cantato da Tennyson nell’ ode ai seicento della carica di Balaclava: «Il mantra è "combattere o morire". Libereremo l’India, oppure moriremo nel tentativo». L’ indomani, alle quattro del mattino, Gandhi era stato arrestato e trasferito a Pune, prigioniero nel lussuoso palazzo dell’Aga Khan. Il suo peggior nemico, Winston Churchill, ebbe la notizia mentre lasciava Mosca, dopo il primo incontro con l’ ex nemico ora alleato Stalin. «Abbiamo sbattuto Gandhi in prigione», commentò soddisfatto il primo ministro britannico. Nei mesi successivi, la campagna per la liberazione dell’ India fallì. Il 10 febbraio 1943 Gandhi annunciò un digiuno di ventuno giorni; col cuore debole, la pressione alta, a settantadue anni, era un proposito mortale. Per decenni Churchill aveva accusato la cedevolezza dei suoi predecessori davanti al «fachiro mezzo nudo»: Gandhi era la «forza del male», il «fanatico asceta, martire a buon mercato». Ora era giunto il suo momento. Toccava a lui decidere. Liberare Gandhi, restituirlo all’ azione politica, condurre gli inglesi fuori dell’ India. Oppure attendere la morte dell’ avversario. Churchill si ammalò. Il 17 febbraio la radiografia confermò la diagnosi del medico personale. A quasi settant’anni, allora, una polmonite poteva essere letale. Per due settimane, i nemici Gandhi e Churchill si misurarono a distanza con la morte. Mentre Gandhi si aggravava, dal 19 al 25 febbraio Churchill fu in preda alla febbre. Si rianimava a tratti solo per opporsi alla clemenza verso Gandhi cui era certo venisse somministrato glucosio nella dose giornaliera d’acqua. Scrisse il 22 febbraio al re: «Il vecchio imbroglione dura più del previsto, c’è da dubitare dell’ onestà del digiuno». Incoraggiò il viceré Linlithgow a non cedere. Intimò agli americani di non interferire. L’indomani il polso di Gandhi divenne impercettibile. I dottori britannici tentarono di alimentarlo per vena, i medici indiani lo impedirono. Il viceré autorizzò la folla a entrare nel palazzo-prigione per l’ ultimo saluto. Poi il Mahatma accettò qualche goccia di lime nell’ acqua, e si sentì meglio. Il 24 Churchill non ebbe più febbre. Finalmente fuori pericolo, il primo ministro scrisse a Harry Hopkins, consigliere del presidente Roosevelt: «Sto meglio ora. Sta meglio anche Gandhi. Deve aver visto che i suoi trucchi non funzionano. Sono davvero contento che non abbiate abboccato». Poi, compiaciuto della propria fermezza, telegrafò al viceré: «Ecco dunque la vecchia canaglia emergere al meglio dal suo cosiddetto digiuno». Per Gandhi era giunto intanto il fatidico ventunesimo giorno. Il 3 marzo la moglie Kasturba gli porse un bicchiere di succo d’ arancia diluito. Gandhi ne sorbì un poco, scoppiò in lacrime. Poi ringraziò i medici, indiani e inglesi. Il digiuno era finito. Nel Gandhi & Churchill (Hutchinson) dello storico Arthur Herman leggiamo lo scontro di uomini opposti, di idee inconciliabili. Una grande lezione sul nemico nella storia. La rivalità tra Gandhi e Churchill non fu mai immobile. Tanto più le posizioni si irrigidivano, parevano insuperabili, tanto più la storia rimescolava le carte, assegnava nuovi ruoli. Gandhi era per Churchill l’idealista inaffidabile, il furbo santone, l’ analogo dei «fanatici maomettani» che aveva combattuto, ufficiale ventenne, alla frontiera nord ovest, l’ attuale terra dei talebani. Churchill era per Gandhi l’inglese viziato, cinico e ambizioso, il soldato forte solo delle sue armi. Erano solo caricature. In realtà, la New Age londinese di fine Ottocento aveva insegnato a Gandhi l’Oriente. E Churchill aveva imparato il mito dell’Impero dal coraggio dei fanti nepalesi. La loro rivalità finì soffocata dalla storia che essi stessi avevano forgiato. I britannici votarono un altro primo ministro due mesi dopo la vittoria, non volevano più l’Impero di Churchill; i massacri tra hindu e musulmani portarono un’Indipendenza opposta a quella pensata da Gandhi. Churchill e Gandhi si erano sfidati fino in fondo, cambiando la storia dei loro popoli. Nella nuova storia, la loro rivalità era rimasta senza ossigeno. È facile credere che il nemico di oggi sia il nemico di sempre, per sempre. Lo scontro tra i nemici Gandhi e Churchill mostra invece che anche l’inimicizia più radicale cambia nella storia. Il 20 gennaio 2009, insediandosi, il presidente Obama ha ricordato al suo Paese la guerra civile e il razzismo: gli americani sanno che «un giorno i vecchi odi passeranno, che le divisioni in tribù si dissolveranno». Per George Mitchell, inviato di Obama nel Medio Oriente, non ci sono conflitti eterni: «Gli esseri umani creano i conflitti. Gli esseri umani possono estinguerli». L’anno trascorso ha però bruciato molte speranze. I segnali di una nuova rotta sono parsi deboli e inefficaci. Sono al palo i negoziati tra israeliani e palestinesi. Con l’ Iran non si tratta. I musulmani ammazzano i cristiani in Sudan. I cristiani ammazzano i musulmani in Cecenia. Cristiani e musulmani si ammazzano in Nigeria. Parlare di pace col nemico è imbarazzante. Lo storico Anthony Pagden (Mondi in guerra, Laterza) ha spiegato che millenni di scontro tra Oriente e Occidente non ci lasciano scampo. Capi politici e religiosi ci bombardano di «ciò che è sempre stata» l’Europa, di «ciò che è sempre stato» l’ Islam. Siamo sempre stati noi perché il nemico ci è sempre stato nemico. Il nemico è tradizione, identità. Il martire di Allah sfida la nostra civiltà perché ci uccide col suo Corano sulle labbra. Il boss mafioso è la nostra civiltà perché prega la nostra Madonna nel suo covo. Chi crede che il nemico di oggi non sia destinato ad essere il nemico per sempre ha l’ onere della prova. Non basta dire che la storia ha sfatto inimicizie e odi, sostituendo aree di conflitto con zone di pace. In un libro uscito mercoledì (How Enemies Become Friends, Princeton University Press), lo studioso americano Charles Kupchan analizza alcuni esempi: dall’unità italiana a quella tedesca, dalla pace tra americani e britannici, agli Emirati arabi uniti, alla federazione degli irochesi. E alcuni fallimenti, come le alleanze nippo-britannica e russo-cinese. L’ autore studia come i nemici sono divenuti amici: il ruolo di parole e simboli, degli «ordini sociali», della «comunanza culturale». Sostiene che si può fare pace anche con le non democrazie. Che l’integrazione commerciale non va sopravvalutata. Kupchan crede nella «costruzione di un corpo teorico sulla pace stabile»; distilla un manuale per Obama. Ma l’ approccio al nemico è sempre un rischio. Interferiscono interessi, circostanze, emozioni. Lo ha ricordato Pierre Milza a proposito della guerra franco-prussiana (L’ année terribile, Perrin). Il 27 settembre 1870, al porto di Tolone, i garibaldini accorsi a difendere la Francia incrociarono il corpo di spedizione francese appena sbarcato da Roma dopo Porta Pia. Una settimana aveva cambiato tutto. Solo due giorni prima, dopo la messa sul ponte della fregata che li rimpatriava, gli zuavi papalini si erano divisi lo stendardo trapassato dalle pallottole di Mentana. Ora muovevano contro i prussiani accanto alle sacrileghe camicie rosse. Se il nemico ci appare puro, immutabile, abbaiamo alla luna. Le nostre invettive, le mobilitazioni, suonano vuote. Stiamo caldi nel bozzolo dell’ ignoranza. Non vogliamo vedere quanto Bin Laden ci somiglia, quanto lo abbiamo fatto noi, quanto ci sia stato amico prima di esserci nemico. Se invece sappiamo che il nemico è mobile, mutevole, abbiamo l’onere di combatterlo davvero. O di parlarci davvero. Lo combattiamo perché lo abbiamo incontrato, come Oriana Fallaci. Ci parliamo perché ci viviamo in mezzo, come Tiziano Terzani. Se il nemico è fuori dalla storia, la nostra isteria è pari alla nostra impotenza. Se il nemico cambia nella storia, niente ci esonera più dall’agire. Niente ci evita la responsabilità di rischiare. Gandhi e Churchill hanno creduto di poter cambiare la storia, di poter cambiare il nemico. Per questo Gandhi scrisse a Hitler. Per questo Churchill replicò a chi criticava l’ alleanza con Stalin: «Se Hitler invadesse l’inferno, esorterei la Camera dei Comuni ad allearsi col Diavolo». Per Gandhi e Churchill, scrive Herman, «l’arena politica fu il luogo in cui realizzare le proprie convinzioni morali, in cui mettere alla prova il proprio coraggio. Entrambi credevano di poter cambiare il corso degli eventi attraverso l’ esempio e la forza di volontà». In Sudafrica, il generale Jan Smuts era stato il nemico di Gandhi e Churchill. Aveva represso la disobbedienza civile del giovane avvocato Gandhi, tutore dei mercanti indiani del Transvaal. Poi aveva guidato i commando boeri contro gli inglesi. Decenni dopo, ormai primo ministro sudafricano, aveva spiegato a Churchill la forza di Gandhi: «È un uomo di Dio. Al contrario di noi, è mosso dalla fede». Il 26 febbraio 1942, appena superata la fase acuta della polmonite, Churchill gli scrisse perentorio: «Credo che Gandhi non abbia avuto la minima intenzione di morire. In queste settimane ha mangiato sicuramente meglio di me. Saremmo stati degli scemi a cedere al bluff». Quello tra Gandhi e Churchill parve uno scontro assoluto, tra mondi inconciliabili. In realtà fu un conflitto tra uomini, nella storia. Con una fine; perché non c’ è nemico per sempre. E un inizio; perché non c’ è nemico da sempre. Così, nel gennaio 1900, il nuovo secolo aveva colto i due in una posizione ben diversa da quella del 1942. Il giovane eroe della guerra anglo-boera Winston Churchill si trovava nel cuore della battaglia di Spion Kop. Dalla sommità della collina, le granate dei boeri decimavano gli assaltatori inglesi. Nel suo cannocchiale, Churchill vide il generale Woodgate, ferito a morte, evacuato in barella. Per un attimo scorse il volto del baffuto barelliere di pelle scura. Fedele suddito dell’Impero britannico, alla testa del suo corpo di volontari indiani. Quel barelliere era Gandhi, il futuro nemico Gandhi.
Marco Ventura