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 2010  marzo 21 Domenica calendario

IL RE DELLO STUDIO 54. LA NEW YORK DI ARA GALLANT

Negli anni Settanta a New York tutti dormivano fino a mezzogiorno. Era una città stracciona, pericolosa, sull’orlo della bancarotta. Noi gay usavamo dei fischietti per attirare l’attenzione di altri omosessuali maschi qualora venissimo attaccati in strada dalle gang che vivevano nelle case popolari tra il Greenwich Village e i leather bar del West Side».

Nella Manhattan dark e torbida descritta da Edmund White nel suo ultimo City Boy, chi negli anni Sessanta aveva vissuto nel segno della trasgressione scivolò semianestetizzato nell’eccesso. Anche in casa Warhol il glamour stava uccidendo le idee, faceva scempio dell’eredità dei beatniks, soffocava l’underground con uno spesso strato di fard e di lustrini. Il popolo di jazz club e speakeasy fu divorato dagli sgargianti legionari dello Studio 54, tempio del nightclubbing che esortava i newyorchesi hipa interminabili maratone dance.

Quando al "54" si presentava Ara Gallant con la sua corte erano solo inchini e salamelecchi. Con lui, spesso, c’erano Anjelica Huston e Jack Nicholson. E nei giorni in cui era sui set fotografici delle nuove collezioni per Vogue, orde di top model. Nessuno avrebbe rifiutato l’ingresso a una moderna Medea pettinata da Ara, lo scultore dei capelli. Prima di lui quelli che si occupavano di acconciature erano parrucchieri; dal suo estro nacque una generazione di coiffeur di sangue blu chiamati hair stylist. A Gallant (nato nel Bronx nel 1932, vero nome Ira Gallantz) quel mestiere non era mai piaciuto, per questo fin dall’inizio volle farne un’arte, scegliendosi uno pseudonimo, come un attore o una pop star.

«Pensavo di diventare un ballerino», diceva, «ma mio padre aveva appena finanziato un salone di bellezza. Così, per compiacere la mia ragazza e la famiglia, mi avventurai nel mondo dei capelli».

All’epoca dello Studio 54 Gallant, dopo aver lavorato con Richard Avedon, Bert Stern e Irving Penn, era diventato lui stesso fotografo, curava le copertine di Interview, il magazine fondato da Andy Warhol e John Wilcock nel 1969, e di fidanzate neanche più l’ombra. Vestiva di nero, con la tipica divisa sadomaso - tra Mapplethorpe e Tom Of Finland - e aveva già ingaggiato una lotta impari con i suoi demoni. La cronaca di quegli anni, che è a tutti gli effetti una dark story (Ara morì suicida a Las Vegas nel 1990), è raccontata ora per immagini in un bel volume edito da Damiani ( Ara Gallant, 160 pagine, 50 euro) nei negozi dal primo aprile. Da ragazzo, Gallant era il preferito dall’élite newyorchese nel salone di Bergdorf Goodman; quando poi, nella metà degli anni Sessanta, cominciò a lavorare per i set di Vogue, il suo contributo divenne irrinunciabile. Le acconciature create per Twiggy, Penelope Tree e Veruschka erano sculture. Ara trasformava le top model in principesse d’altri tempi, creature d’altri mondi.

Per lui i capelli erano come metallo da forgiare, vetro da soffiare, marmo da scolpire. Un Prassitele delle chiome, insomma. «L’ho conosciuto all’inizio della sua carriera», ci racconta Veruschka, la Cleopatra preferita da Gallant. Ora vive a Berlino, sta lavorando alla sua biografia e ha in mente di realizzare un film sulla città. «Ara era un eccentrico e un perfezionista. Tutto di lui faceva pensare a un artista, mai a un parrucchiere. Per se stesso e peri suoi amici pretendeva il meglio. Amava il lusso e viveva in grande stile». Dinamico e inquieto, si buttò senza paracadute in una Manhattan tutta sesso e cocaina e, come fotografo, scattò memorabili ritratti di Mick Jagger e Warren Beatty, Deneuve e Sissy Spacek, Arnold Schwarzenegger e Drew Barrymore bambina. Ma, soprattutto, inventò quei tableaux vivants (che avrebbero tanto influenzato David LaChapelle e Mark Seliger) di cui fu protagonista la modella olandese Apollonia van Ravenstein, come quello scelto per la copertina del libro, una sorta di Ratto delle sabine di un redivivo Jacques-Louis David tra le mille luci di New York, dove per quindici minuti di celebrità la posta in gioco può essere anche la vita.

Ma qualcosa non funziona, dentro e intorno a lui. Suo fratello viene assassinato in un appartamento di St. Mark’s Place, il fisco lo perseguita, è costretto a vendere il bizzarro appartamento dalle pareti cromate sull’East River, la New York flagellata dall’Aids lo disturba. «Alla fine non poteva più permettersi quel tenore di vita», racconta Veruschka, «il suo tormento iniziò dalla consapevolezza che avrebbe dovuto cambiar vita, fare scelte diverse per mantenere quello standard». Vola a Los Angeles, complice Jack Nicholson, in cerca di aria nuova nel mondo del cinema, di un sole più forte che disintegri i vampiri che lo divoravano. Ma di quei film che aveva in mente non si fa niente, i produttori gli leggono negli occhi e sulla pelle il vizio della cocaina.

«A quel punto non c’era più nessuno che avrebbe potuto aiutarlo. Ara aveva deciso che non voleva vivere in quel modo. Fisicamente e mentalmente, oberato dai problemi economici, era allo stremo. difficile riportare sui binari un uomo alla deriva», conclude Veruschka. devastato a tal punto che gli amici cominciano a pensare sia sieropositivo. Non lo è. Solo troppo fragile per continuare a vivere. E Las Vegas, il decadente sancta sanctorum del glamour, gli sembra il luogo più adatto per farla finita.

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