Franco Cardini, Il Sole-24 Ore 21/3/2010;, 21 marzo 2010
NOI DEBITORI DI ENRICO V - Diciamo la verità: come europei, come compartecipi dell’ " Occidente" e della "Modernità", come esseri umani
NOI DEBITORI DI ENRICO V - Diciamo la verità: come europei, come compartecipi dell’ " Occidente" e della "Modernità", come esseri umani. Non potremo mai essere gli stessi senza l’Enrico V di Shakespeare;e la grande "tragedia epica" del vincitore di Agincourt,d’altra parte, non potrebbe mai non rientrare nel fatidico pacchetto dei "dieci libri da salvare" in un (auguriamocelo) immaginario naufragio non diciamo del mondo, ma quanto meno della nostra Europa. Quel campo rischiarato dai fuochi e quei soldati che aspettano l’alba sapendo che quello sarà probabilmente un bel giorno per morire ci stanno piantati dentro, nel cuore e nelle viscere. A fronte dell’orgoglio scintillante e galoppante della bella cavalleriafrancese così certa dell’immancabile vittoria (oh, l’Autunno del medioevo del grande Huizinga!...), la virile pacatezza del sovrano consapevole che bisognerà comunque salvare l’onore e i suoi "inglesi"che loattorniano – e che sono in realtà anche scozzesi, irlandesi, gallesi, ciascuno con il suo inglese incerto e dialettale, tutti unitinella prospettiva del sacrificio eppure pieni di un’intensa spes contra spem – sono qualcosa che non morirà mai: o l’Europa morirebbe con loro. Ci sarebbe davvero molto da riflettere in tema di modelli, nelle appena avviate e già contestate celebrazioni del 150º dell’unità d’Italia, sulla profondità e l’intensità di questo vero e proprio atto di nascita nazionale, di questo altissimo Birth of a Nation. Troppi di noi, tuttavia, sono abituati a considerare Enrico V, il fatto d’arme di Agincourt (o Azincourt) e la tragedia di Shakespeare come un punto di partenza. vero il contrario: rappresentato per la prima volta dal poeta già trentacinquenne nel 1599, pubblicato in forma provvisoria l’anno successivo e definitiva solo nel 1623, sette anni dopo la sua scomparsa, l’Henry V è forse il Lebenswerk dell’ultimo ventennio di attività del Maestro. Allo stesso modo, il libro splendido (e una volta tanto l’aggettivo, iperbolico, è bene speso) di Enrico Gusberti, The star of England, è il Lebenswerk di uno studioso serio, estremamente schivo e riservato, la produzione scientifica del quale si è sempre ispirata a una severa selettività. Docente di Storia del Rinascimento presso l’Università di Bologna, autore soprattutto – finora – di saggi sul pensiero rinascimentale fiorentino tra il Magnifico Lorenzo e il Guicciardini, Gusberti dimostra in questo suo libro la sua "bolognesitudine": per quanto sia romano di nascita. I maestri e gli amici che lo hanno sostenuto e ai quali si riferisce, oltre a Giacomo Marramao e a Gen-naro Sasso, sono l’arcibolognese Paolo Prodinonché tanto Ovidio Capitani quanto Girolamo Arnaldi che, pur non essendo bolognesi, all’ Alma Mater Studiorum sono profondamente legati. Tra gli altri ispiratori e sostenitori della sua fatica, peraltro, Gusberti ne indica uno ch’è forse un "testimonechiave", e al quale il libro è dedicato: sua figlia Elisa, che – lasciamo parlare l’Autore – «archeologa di scuola carandiniana, ...(mi introdusse) al concetto di "stratigrafia del mito"». Ed è appunto a un dotto ma anche brillante lavoro stratigrafico che Gusberti c’introduce in questo suo ampio e ben costruito studio nel quale il capolavoro shakespeariano è non già punto di partenza bensì, semmai, d’arrivo. Delle tre parti nelle quali il libro si articola, dopo la prima dedicata a La dottrina della regalità e la seconda a I volti della regalità , solo con la terza si perviene alla terza, Shakespeare e il tema regale che è non solo l’ultima,bensì con ogni evidenza la risolutiva e definitiva. La tematica di questo studio è connessa con due grandi capolavori della letteratura storiografica del Novecento, I re taumaturghi di Marc Bloch e I due corpi del re di Ernst Kantorowicz, cui si potrebbe forse aggiungere Il corpo del re pubblicato nel 1990 – guarda caso... – da un altro bolognese, Sergio Bertelli, che Gusberti conosce e cita. L’assunto del saggio ruota attorno alla contrapposizione, nella concezione inglese di regalità, tra voluntas e ratio : da una parte l’elemento volontaristico, arbitrario o schmittianamente "decisionistico" (e il tema della "teologia politica" era difatti qui ineludibile), dall’altra la forza dell’adesione alla legge e della costruzione di uno ius regni . Se la voluntas ha il carattere dell’irruenza propria del puer , la ratio – virtù fondamentale dei sovrani già in età medievale – è propria del vir: e il "mito" di Enrico V è giocato, tra Quattro e Seicento, tutto sulla conquista della razionalità e della virilità da parte di un giovane irruento principe: iter che assume volta per volta i contorni della conversio e della Bildung. Ed è proprio nel passaggio graduale e sofferto dalla principesca puerizia alla regale virilità che Shakespeare incentra la sua visione di un sovrano che, nel momento della prova più dura ed estrema, si sente – al di là dei connotati "sacrali" della sua regalità ”uomo tra uomini e soldato trai soldati e sa guardare con ferma e franca lealtà dritto negli occhi i suoi sudditi in armi con lui, per lui e attorno a lui, chiamandoli brothers, friends, countrymen . Una virilità che si contrappone al visionarismo capriccioso e disperato di Riccardo II, secondo appunto la tragedia shakespeariana che precede di pochi anni per non dir di alcuni mesi l’Henry V. Nella celebre scena della deposizione ( Atto IV, scena 1), Riccardo si paragona al Cristo: il che è del tutto naturale, del resto, nella teologia della regalità medievale e anche moderna europea, nella quale il monarca è appunto typus Christi . Ma è proprio dall’abdicazione di Riccardo II e dall’elezione di Enrico di Lancaster, "Bolingbroke", cioè Enrico IV padre e predecessore del V, che partono sia l’obiettiva vicenda del rinnovamento nella monarchia inglese – nodale prima del successivo, quello Tudor alla fine della "Guerra delle Due Rose": e connesso al tema parlamentaristico (e in prospettiva costituzionalistico) dell’elettività, radicato nel "bene comune" – sia appunto la ricerca di Gusberti. Che approda all’esposizione dell’idea shakespeariana di una regalità "radicalmente umanistica", vale a dire ( nella sostanza, se non ancora, e per evidenti ragioni storiche, nelle forme) "affrancata dal suo fondamento teologico". Quindi – si potrebbe concludere con Habermass – propriamente "occidentale", "moderna" e quindi "laica": poiché l’Occidente/Modernità/Laicità coincide sostanzialmente, nel pensiero habermassiano, con la liberazione dall’ipoteca teologico- sacrale e con la progressiva affermazione che si debba vivere etsi Deus non daretur . Ma per correttezza debbo sottolineare che Gusberti, il quale ovviamente cita Schmitt, non cita invece Habermass. Un bellissimo libro, che ci fa conoscere la complessa e intricata tradizione quattro-seicentesca delle fonti relative alla regalità inglese, sino al processo a Carlo I e alla glorious revolution. Magistrale in modo speciale – e un medievista non può esimersi dal sottolinearlo – il modo col quale Shakespeare coglie, e Gusberti commenta, il carattere propriamente cavalleresco della vocazione regale di Enrico V, nettissimo nella preziosa scena del corteggiamento del re a Caterina di Francia. Un’autentica Star of Books, questa di Gusberti.