Giuseppe Berta, Il Sole-24 Ore 21/3/2010;, 21 marzo 2010
L’ITALIA SOFFRE DI SINDROME DA STATES
Col procedere dei mesi, anche in Italia si fa strada il timore che la via d’uscita dalla crisi - lenta, faticosa e accidentata come si profila - non intersechi la crescita dell’occupazione. Le ultime rilevazioni sull’andamento dell’economia reale colgono sintomi di miglioramento all’interno di alcune realtà italiane, senza però preludere a una sensibile ripresa dell’occupazione.
il rischio di una "sindrome americana" quella che si affaccia oggi all’attenzione di molti operatori e osservatori, con una ripresa che non ha né la portata né la capacità di riflettersi positivamente sull’occupazione.
Negli Usa se ne è tornato a parlare non appena sono usciti i dati sull’andamento del mercato del lavoro nel febbraio scorso: ancora una volta si è dovuto prendere atto che l’emorragia occupazionale non si arresta.
Da oltre due anni ormai i posti di lavoro sono in contrazione nell’economia americana: il mese passato ne sono stati persi altri 36mila. Così, mentre le previsioni per l’anno in corso stimano una crescita del Pil intorno al 3%, l’indice di disoccupazione continua a sfiorare il 10 per cento.
Due le ipotesi avanzate dall’Economist (13 marzo) per rendere conto di questa anomalia. O la ripresa non è robusta come sembra nemmeno negli Stati Uniti e i dati del Pil mascherano una fragilità più grave di un sistema economico non ancora al riparo dalle ripercussioni della crisi; o la ripresa è trainata da incrementi di produttività riconducibili a una forte ricerca di efficienza da parte delle imprese.
Secondo le rilevazioni, la produttività starebbe crescendo negli ultimi mesi a un ritmo del 7% o anche superiore: livelli quasi da record e da salutare in modo certamente positivo, se si accompagnassero a un miglioramento del mercato del lavoro.
Ma in questo momento non è così, perché siamo ancora al punto in cui le imprese operano per il loro rilancio ristrutturandosi e facendo efficienza, azioni che semmai tendono a contrarre ulteriormente il numero degli occupati, invece di farlo salire.
In Italia, dove la crescita si mantiene ben distante dalle aspettative Usa, è probabile che ci si debba preparare a tempi difficili sul fronte dell’occupazione. Non soltanto anche perché da noi le imprese saranno spinte a battere ulteriormente la strada della compressione dei costi e dei recuperi di efficienza, ma perché l’impulso a ristrutturare ha investito gli ambiti che in passato avevano sorretto l’occupazione.
Quando l’industria aveva attuato investimenti a risparmio di lavoro, era stato il variegato arcipelago del terziario a compensarne gli effetti occupazionali. Ora invece sono anche le realtà terziarie a doversi misurare con politiche che puntano al recupero dell’efficienza e della produttività.
A comprendere questo nodo aiuta il rapporto appena curato dal Censis sul terziario ( Il terziario è un’industria? ),
che sottolinea il carattere nuovo e cruciale del passaggio affrontato dal settore più capace di creare e di sostenere i livelli dell’occupazione.
Fra il 1993 e il 2008 sono stati oltre 3 milioni i posti di lavoro attivati nel sistema dei servizi, che oggi raggruppa tra i 15 e i 16 milioni di lavoratori. Contrariamente a quanto spesso si pensa quando si identifica nel terziario il regno degli autonomi, la grandissima maggioranza di queste nuove occupazioni rientra nel lavoro dipendente ( 2 milioni 787 mila). Nello stesso periodo, l’industria ha perso 72mila posti di lavoro e l’agricoltura 468mila.
Ma con la crisi è venuta meno la "spinta propulsiva del terziario italiano". Il mondo del mercato immobiliare così come, ancora prima, quello della new economy, hanno cessato di attrarre lavoratori. Il pubblico impiego è bloccato dai vincoli di bilancio e dalle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Lo stesso universo dei servizi alle imprese, che ruota attorno alle attività di consulenza, di ricerca, di comunicazione e di marketing e che il Censis chiama "terziario di mercato", sta scontando un’inevitabile battuta d’arresto.
La conseguenza è che nei primi tre trimestri del 2009 l’occupazione terziaria è diminuita dello 0,8% rispetto al periodo analogo dell’anno precedente, rinfocolando i dubbi sulla sua tenuta durante una crisi lunga e complicata come l’attuale.
Tutto ciò suona come un campanello d’allarme per le prospettive a breve dell’occupazione. Il peso dei lavoratori non qualificati sul totale del terziario risulta troppo alto (10,2%), in specie se si considera che è quello cresciuto di più negli ultimi anni.
Al contrario, il numero dei lavoratori altamente specializzati appare contenuto (sono 79mila i nuovi assunti fra il 2004 e il 2009 che appartengono a questo gruppo, contro i 233mila non qualificati). Poiché la crisi ha sollecitato processi di razionalizzazione, i riflessi negativi minacciano di essere gravi e non di breve durata.
La società italiana deve dunque attrezzarsi per gestire una transizione occupazionale complessa, in grado di costituire di per sé una remora ulteriore al rilancio economico.