Antonella Scott, Il Sole-24 Ore 21/3/2010;, 21 marzo 2010
CONTRO PUTIN LA RABBIA DI 50 CITT
Kaliningrad prende il testimone da Vladivostok: è ormai notte in estremo oriente, e la "giornata della rabbia" russa è srotolata tra i fusi orari e 50 città, mai era successo che il paese si mobilitasse così, si unisse così. Poche centinaia, a volte, altrove mille, duemila persone. Cifre simboliche, ma è la Russia di Vladimir Putin; e quando cento voci gli urlano «dimettiti! », un tabù è infranto.
Ora tocca al lembo più occidentale dell’impero protestare. La dimostrazione più temuta: il 30 gennaio scorso Kaliningrad aveva colto tutti di sorpresa, 10mila persone in piazza contro il governatore Gheorghij Boos e contro Putin, contro la crisi economica e la mancanza di democrazia. Per la prima volta, l’opposizione aveva trovato un terreno comune, era nata una coalizione. Una scintilla che rischiava di accenderne altre.
Per fermarla, le autorità hanno fatto di tutto, mescolando promesse e minacce. «I miei amici hanno ricevuto degli avvertimenti, se avessero partecipato alla manifestazione del 20 marzo avrebbero perso il posto o sarebbero stati cacciati dall’università»,racconta Aleksej, 24 anni, un giovane di Kaliningrad che ancora non ha un lavoro ma non può rischiare: quasi nessuno qui si sente di dare il proprio cognome. A poco a poco tutti i partiti si sono piegati alle pressioni, primo tra loro Russia Giusta, il meno lontano dal Cremlino. «Una manifestazione avrebbe potuto finire in un bagno di sangue», spiegava su internet Arsenij Makhlov, uno dei leader dell’opposizione locale, giustificando la decisione di Russia Giusta di annullare tutto. Niente cortei nella piazza Centrale, niente politici a tenere discorsi.
La gente ha preso il loro posto. Questa enclave stretta tra Lituania e Polonia è al di sopra della media russa per numero di disoccupati, al primo posto per arretrati salariali. L’ingresso dei paesi vicini nell’area di Schenghen ha ulteriormente isolato Kaliningrad e colpito una delle sue risorse più importanti, il commercio. Ma l’importazione di auto usate dall’Europa ha avuto il colpo di grazia quando il governo di Moscaha aumentato i dazi per difendere l’industria nazionale, e quando Boos ha aggiunto un’imposta sul possesso di auto e motocicli.
I centauri del gruppo Nochnyje Volki, lupi della notte, non glielo perdonano. Parcheggiano le moto e si raccolgono vicino alla Casa dei Soviet, la sede del governo di Kaliningrad sulla piazza Centrale. Le autorità hanno negato il permesso di manifestare spiegando che proprio qui e proprio sabato è prevista una fiera di prodotti agricoli. «Sciocchezze sbotta una signora, Victoria - siamo alla fine dell’inverno, di che frutta e verdura parlano?». I motociclisti si preparano, si appuntano al petto distintivi con scritto "Stop Boos", qualcuno gira distribuendo mandarini. «Mandarini, perché? Perché assomigliano alla faccia del nostro governatore, uno che ha sempre curato i propri interessi e mai quelli di noi kaliningradesi », sogghigna Oleg, giubbotto di pelle e cinturone.
Per Gheorghij Boos,l’idea della fiera diventa un boomerang. La gente supera i controlli di sicurezza e passeggia tra le casette di legno e i sacchi di patate, ma nessuno è qui per fare acquisti. La frutta l’hanno già in tasca, presto la tirano fuori e alzano il braccio in aria: se questa sarà rivolta, la chiameranno la rivoluzione dei mandarini.
Sono in tanti qui, gli organizzatori dicono 5mila. Alcuni hanno una mascherina sulla bocca, «perché ci hanno tolto la voce», e restano un minuto in silenzio: «Lutto per la morte della democrazia », spiegano. Altri invece si radunano accanto a un signore che alza al cielo un tricolore russo, su cui però sono disegnati dei ragni: «I nostri oligarchi, che si moltiplicano arricchendosi». Si stringono a lui, finché qualcuno trova coraggio
AFP
e grida: «Boos dimettiti!». Le tasse sull’automobile ma non solo, l’aumento dei prezzi di acqua luce e gas, il degrado del sistema sanitario, la chiusura di scuole e asili. Ci sono tanti giovani, e tanti pensionati: «I problemi "tradizionali" russi come burocrazia e corruzione qui si aggiungono a un grave deterioramento della situazione socio- economica e al declino degli scambi con l’Europa a causa dei visti di Schenghen», spiega un attivista, Sherzod Igamberdijev. Abbastanza perché le voci si moltiplichino: «Putin dimettiti! », urla ora la gente nella piazza Centrale. «Adesso è chiaro che non siamo più a una fiera », osserva preoccupato Aleksej.
E infatti alcuni poliziotti si fanno strada tra la folla, è l’istante in cui una manifestazione sfiora la violenza. Ma i milizionery si fermano, l’ordine è soltanto farsi vedere. «Vivete anche voi in questo paese», li sgrida una vecchietta. Uno di loro sorride. stato così anche altrove, Irkutsk, Novosibirsk, Pietroburgo, nelle città della rabbia russa le manifestazioni si sono svolte in generale senza grossi incidenti. Solo a Mosca, dove il comune aveva vietato assembramenti in piazza Pushkin, 70 attivisti sono stati fermati. «Gli occhi del mondo stanno guardando», aveva avvertito da Washington il senatore John McCain, invitando il Cremlino alla tolleranza.
A Kaliningrad, Gheorghij "Mandarino" Boos cerca di difendersi. Organizzata in tutta fretta una maratona televisiva, per quattro ore ha risposto alle domande dei cittadini, ha ammesso che evidentemente l’interazione con loro non è stata sufficiente. Sarà Putin a decidere di lui, e spetta a Putin raccogliere il segnale che la Russia che non ha paura gli ha trasmesso, i cittadini stanchie arrabbiati lasciati soli anche dai leader dell’opposizione. Piove sempre più forte a Kaliningrad, è strano che i miliziani siano così pochi. A un certo punto da un pulmino giallo per il trasporto dei bambini scendono dei tipi grandi e grossi, vestiti di scuro, l’aria truce. Si dirigono verso la fiera ma laggiù, ormai, non è rimasto quasi più nessuno.