Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  marzo 21 Domenica calendario

IL MASSACRO DI SREBRENICA E LE COLPE DI UN’EUROPA «ALLEGRA»

Nelle scorse settimane, mentre il Tribunale penale internazionale processava all’Aja Radovan Karadzic, ex presidente dei serbi di Bosnia, un gruppo di donne manifestava silenziosamente di fronte al carcere.
Rappresentavano le «vedove di Srebrenica», le mogli, le madri e le sorelle degli ottomila uomini e ragazzi che erano stati massacrati nel luglio del 1995 dai miliziani serbi del generale Ratko Mladic. Non chiedevano soltanto la condanna dell’imputato. Chiedevano soprattutto che il mondo, distratto da altri massacri e altre guerre, non dimenticasse la loro tragedia. Oggi il loro desiderio è stato improvvisamente esaudito, ma per ragioni che tengono alla politica militare americana piuttosto che ai drammi della penisola balcanica nell’ultimo decennio del Novecento.
Srebrenica è riemersa dal fondo della memoria perché il Congresso e lo stato maggiore degli Stati Uniti stanno discutendo lo statuto degli omosessuali nelle forze armate americane. E’ giusto riconoscerne esplicitamente la presenza? O è preferibile continuare a rispettare la formula volutamente reticente («don’t ask, don’t tell», non fare domande, non parlarne) con cui il presidente Clinton, all’inizio del suo primo mandato, aveva risolto la questione? Convocato da una commissione del Senato, il generale John Sheehan, contrario a qualsiasi riforma, ha sostenuto la sua tesi dicendo di avere appreso che nel contingente olandese dell’Onu distaccato a Srebrenica e testimone passivo di quella vicenda, vi era un certo numero di soldati omosessuali. Secondo confidenze raccolte in ambienti militari dei Paesi Bassi, la loro presenza, ha detto Sheehan, avrebbe influito sulla reazione del corpo, ne avrebbe determinato l’impotenza.
Tralasciamo questa bega fra americani in cui il massacro balcanico serve tutt’al più da pezza d’appoggio e cerchiamo piuttosto di ricostruire gli avvenimenti di cui il massacro rappresentò la fase più tragica. Si combatteva in quei mesi la seconda delle tre guerre che hanno sconvolto la Jugoslavia degli anni Novanta. Il conflitto era scoppiato dopo la proclamazione dell’indipendenza bosniaca, decisa con un referendum della primavera del 1992. Il progetto era nato nella mente di un uomo, Alija Izetbegovic, che aveva annunciato sin dal 1970 la sua intenzione di «islamizzare i musulmani di Bosnia». Il suo programma, quindi, era nazional-religioso e si scontrava con la prevedibile opposizione di due consistenti minoranze: quella dei croati dell’Erzegovina e quella dei serbi della regione prevalentemente montuosa fra Pale e Banja Luka. Non basta.
Mentre il contado delle tre zone era complessivamente omogeneo, le città maggiori – Sarajevo, Mostar – erano melting pot etnici e confessionali dove i minareti delle moschee svettavano a fianco di campanili cattolici e cupole ortodosse in forma di cipolla. L’Unione europea prestò un’attenzione distratta a queste circostanze e ritenne che il miglior modo per accompagnare la Jugoslavia lungo la strada della sua disgregazione fosse quello di riconoscere l’indipendenza delle singole repubbliche nei confini che Tito aveva imposto dall’alto all’inizio del suo regime. Né i croati né i serbi accettarono l’ukaz di Bruxelles. La guerra che si combatté nei mesi seguenti fu un conflitto per bande, colpi di mano, operazioni di commando, agguati, attentati e soprattutto feroci distruzioni dei luoghi più cari al nemico: le chiese, le moschee, la biblioteca di Sarajevo, lo splendido ponte di Mostar che i turchi avevano costruito nel 1566. L’episodio più drammatico e cruento, prima di Srebrenica, fu il lungo assedio serbo di Sarajevo, colpita quotidianamente da colpi di mortaio e dalle micidiali fucilate di cecchini che inseguivano i passanti nelle strade della città.
Le truppe dell’Onu, composte prevalentemente da contingenti europei assistettero impotenti. Avevano istruzioni vaghe e strutture di comando del tutto inadatte al compito che dovevano affrontare. Né l’Ue né gli Stati Uniti, in quel momento, seppero concepire e applicare una linea efficace e coerente. In quel vuoto di iniziative politiche irruppero in luglio le milizie serbe del generale Ratko Mladic. S’impadronirono dell’area protetta di Srebrenica, immobilizzarono gli olandesi, separarono gli uomini dalle donne e uccisero 8000 musulmani. Non fu soltanto un colossale omicidio. Fu anche il tragico suicidio della Serbia, una nazione che non meritava di apparire al mondo, come accadde da quel momento, il principale imputato della tragedia balcanica.
Quell’avvenimento ebbe un altro effetto: quello di provare al mondo che l’Europa, nonostante i suoi ambiziosi programmi unitari, era incapace di combattere. Gli olandesi avevano molte responsabilità, ma furono allora soprattutto la rappresentazione estrema, la punta emergente dell’impotenza europea. Piuttosto che puntare il dito sui soldati gay del loro contingente converrebbe parlare di «Europa gay» dove gay, in questo caso, non significa omosessuale, ma allegra, spensierata, molle e inconcludente.
Sergio Romano